Microplastiche, dalle acque dell’Antartico alla birra in lattina

Il recente studio australiano “No Plastic in Nature: Assessing Plastic Ingestion from Nature to People” ha messo in luce come l’uomo potrebbe ingerire ogni settimana fino a 5g di microplastiche, un quantitativo di plastica equivalente ad una carta di credito. Il Report, pubblicato nel 2019 dall’Università di Newcastle, era stato commissionato dal WWF per studiare le origini e gli effetti dell’ingestione di questi frammenti.

Per microplastiche si intendono quelle particelle di plastica solide composte da miscele di polimeri e additivi funzionali di dimensioni che non superano i 5 mm di diametro. Esse possono formarsi accidentalmente quando pezzi di plastica più grandi, quali pneumatici di automobili o tessuti sintetici, si usurano (in questo caso si parla di microplastiche secondarie), oppure realizzate e aggiunte intenzionalmente a determinati prodotti per uno scopo specifico (microplastiche primarie) come, ad esempio, i granuli esfolianti negli omonimi preparati per il corpo e per il viso. Queste particelle possono essere contenute anche in altri prodotti, quali, ad esempio, fertilizzanti, prodotti fitosanitari, cosmetici, detergenti industriali e per la casa, vernici e nei prodotti utilizzati dall’industria petrolifera e del gas.

Le microplastiche, una volta disperse nell’ambiente, rimangono negli ecosistemi per centinaia, in alcuni casi migliaia di anni danneggiando flora, fauna oltre che la salute umana. In questo senso, un recente studio “Synthetic Polymer Contamination in Bottled Water” (2018), pubblicato dall’Università Statale di New York in Fredonia, ha rilevato la presenza del polimero sintetico in tutti i 259 campioni di acqua in bottiglia esaminati e prelevati da diverse aree del globo.

Per quanto riguarda gli esseri umani, lo studio “No Plastic in Nature” del 2019 ha mostrato che la maggior parte delle particelle che ingeriamo ogni settimana, circa 2000, derivano dell’acqua che beviamo (circa 1769). La parte restante (dalle 70 alle 400 particelle) proviene, invece, dai crostacei che mangiamo, i quali vengono ingeriti dall’uomo comprensivi dell’intero tratto digerente e, in modo inaspettato, dal sale e dalla birra. In quest’ ultimo caso, gli studiosi faticano ancora oggi a capire la provenienza delle microplastiche al loro interno.

Inoltre, uno studio italiano del 2021 condotto dai ricercatori dell’ospedale Fatebenefratelli di Roma e dell’Università Politecnica delle Marche ha rilevato, in modo ancora più allarmante, la presenza del polimero sintetico nella placenta di quattro donne e non ha escluso, date le misure estremamente ridotte delle particelle (0.01 mm), che tali sostanze siano presenti anche nel corpo dei rispettivi neonati. Il Dott. Antonio Ragusa, autore dello studio, ha evidenziato i rischi di una tale situazione sottolineando come “con la presenza di plastica nel corpo viene turbato il sistema immunitario che riconosce come sé stesso anche ciò che non è organico. E’ come avere un bimbo cyborg: non più composto solo da cellule umane, ma misto tra entità biologica e entità inorganiche.”

Nonostante vi siano ancora poche informazioni riguardo gli effetti che le microplastiche hanno sul corpo umano, alcuni scienziati hanno dimostrato che, una volta assorbite, le particelle tendono ad accumularsi nel fegato, nei reni e nell’intestino provocando stress ossidativo, problemi metabolici, processi infiammatori, nonché danni ai sistemi immunitario e neurologico. Infine, nella valutazione degli effetti negativi delle MP (microplastiche) occorre tener conto della presenza delle sostanze chimiche in esse presenti o attaccate alla loro superficie, il cui rilascio nell’organismo rappresenta un potenziale rischio per la salute.

Nel corso degli anni, il tema delle microplastiche non è stato una questione circoscritta a poche aree terrestri, ma ha interessato ogni zona del globo. Microplastiche sono state rinvenute, infatti, in Antartide e persino sui fondali della Fossa delle Marianne. Inevitabile, quindi, l’impatto di queste sugli ecosistemi e di conseguenza sull’uomo. Per tali ragioni, un intervento legislativo si è rivelato di fondamentale importanza.

Nel 2017 la Commissione europea ha invitato l’ECHA (European Chemicals Agency) a valutare le prove scientifiche per l’adozione di un’azione normativa a livello dell’UE in riferimento alle plastiche aggiunte intenzionalmente ai prodotti. Così, nel gennaio 2019, l’Agenzia ha proposto un’ampia restrizione delle MP nei prodotti immessi sul mercato UE/SEE per evitarne o ridurne la dispersione nell’ambiente. Tuttavia, se il piano iniziale prevedeva il divieto di tutte le microplastiche con una dimensione minima di 1 nm per le particelle e di 3 nm per le fibre, dopo una serie di consultazioni con gli stakeholder industriali,  l’ECHA ha deciso di ridurre la dimensione minima concessa di ben 100 volte. Ciò però, permetterebbe all’industria di utilizzare particelle ancora più piccole in prodotti quali cosmetici, detergenti e vernici. L’European Environmental Bureau (EEB) ha sottolineato come questa modifica “fornirebbe ai produttori un incentivo perverso a cambiare la produzione dalla microplastica alla nanoplastica, che può essere ancora più dannosa per la salute umana e animale perché in grado di danneggiare le cellule”. Una proposta discutibile, indubbiamente, ma che comunque si prevede possa impedire il rilascio di oltre 500 000 tonnellate di microplastiche nell’arco di 20 anni.

La Commissione sta valutando anche altre opzioni per ridurre la dispersione nell’ambiente acquatico delle particelle formatesi accidentalmente nell’ambito della Strategia sulla plastica e del Nuovo piano d’azione per l’economia circolare. Alla luce della relazione dell’ECHA e del parere combinato dei comitati, l’istituzione europea dovrà elaborare la propria proposta, ma prima che la restrizione possa essere adottata, dovremo aspettare che questa passi al vaglio del Parlamento e del Consiglio europeo.

Sara Filugelli