Gli accordi sul clima

Nel Focus precedente, ho ripercorso i momenti più salienti dell’evoluzione del Diritto internazionale dell’ambiente nell’ultimo secolo e, in particolare, mi sono soffermata sui trattati relativi alla riduzione delle emissioni di gas serra in atmosfera; ora, nel seguente Focus, mi concentrerò su uno degli ambiti del moderno Diritto Internazionale dell’ambiente risultati dagli Accordi di Rio: i trattati sul Clima. Tali trattati, fra cui figurano nomi ben noti a tutti noi quali il Protocollo di Kyoto o l’Accordo di Parigi, hanno ad oggetto un tema di grande rilevanza e attualità – sia per l’urgenza dell’argomento approfondito, sia per l’impatto politico-economico che l’argomento inevitabilmente porta con sé. A termine, una breve riflessione sull’attuale crisi energetica causata dalla Guerra Russia-Ucraina e cosa tutto questo significhi nel contesto dei trattati ambientali degli ultimi decenni.

Nel 1992, in occasione della Conferenza sull’ambiente e lo sviluppo, fu aperta alle firme la Convenzione quadro sui cambiamenti climatici (UNFCCC, United Nations Framework Conference on Climate Change). La Convenzione aveva come obbiettivo principale la riduzione delle emissioni di gas serra, che all’epoca si era iniziato a considerare come una delle principali cause del riscaldamento globale. Tale convinzione era corroborata dalle ricerche dell’IPCC (all’epoca ancora WG-III), ovvero dal gruppo di lavoro incaricato dalle Nazioni Unite di studiare le problematiche ambientali da un punto di vista scientifico e di adottare dei report che potessero guidare le scelte dei decision-makers internazionali. In effetti, nel suo primo Report, adottato nel 1990, l’IPCC analizzava le variazioni climatiche da un punto di vista storico ed evidenziava come l’alterazione di temperatura da loro allora rilevata (circa 0.45°C rispetto al diciannovesimo secolo) potesse essere ricollegabile alle emissioni antropogeniche di gas serra, senza però sbilanciarsi eccessivamente su una posizione definitiva in merito. Come si legge infatti a termine del report, “Una migliore comprensione delle variazioni climatiche del passato è essenziale, se vogliamo ottenere una stima affidabile di quanto esattamente il riscaldamento globale nel corso dell’ultimo secolo, e il riscaldamento futuro, siano dipendenti dalle emissioni di gas serra”.

Tuttavia, nel corso del Summit, prevalse una linea prudente sui potenziali danni futuri inflitti dall’attività umana al pianeta.

Non sorprende, quindi, che l’UNFCCC si impegnasse dunque alla riduzione e stabilizzazione delle emissioni di gas serra a livello pre-anni ’90 entro il 2000, senza però imporre limiti obbligatori agli Stati.

Dall’entrata in vigore della Convenzione, il 21 marzo del 1994, le Conferenze degli Stati Parti (COP) hanno rappresentato il luogo in cui valutare i progressi ottenuti nella sua attuazione.

Occorre ricordare che l’UNFCCC ha suddiviso gli Stati parte in tre Gruppi, a cui corrisponde un Allegato specifico, sulla base del loro grado di sviluppo economico e sui conseguenti obblighi di riduzione delle emissioni di gas serra cui essi si impegnavano. Abbiamo quindi:

  • Allegato I: in cui rientrano i Paesi sviluppati e i Paesi in fase di transizione economica (es., Russia)
  • Allegato II: in cui vi sono i Paesi sviluppati che si impegnino a contribuire economicamente allo sviluppo dei Paesi ex-coloniali (es., Italia)
  • Allegato III: dedicato ai Paesi in via di sviluppo (es., Cina)

Secondo gli accordi, i Paesi membri dei primi due allegati si sarebbero impegnati a ridurre le proprie emissioni di gas serra ai livelli pre-anni ’90. Di contro, ai Paesi che rientravano nel terzo Allegato non si richiedeva alcun impegno vincolante di riduzione proprio per favorire il loro sviluppo economico che era stato rallentato dalla colonizzazione e dal sovrasfruttamento da parte dei Paesi più sviluppati. Si decise, inoltre, che la stessa uscita dall’Allegato III dovesse essere su base volontaria da parte dei paesi così designati, una volta raggiunto un livello di sviluppo economico sufficiente. Tutto ciò nonostante la consapevolezza che tra i diversi Paesi inclusi nell’Allegato III, alcuni sarebbero divenuti fra i massimi inquinatori a livello globale nel giro dei 15 anni successivi, a causa della rapidità con cui la loro economia e la loro popolazione stavano crescendo.

Il principio base che aveva portato a tale suddivisione era quello della responsabilità comune, ma differenziata, affermato nella Dichiarazione di Rio, che teneva conto della responsabilità storica dell’inquinamento e, allo stesso tempo, delle risorse a disposizione dei Paesi più sviluppati.

Nel 1997, nel corso della COP 3, ai fini dell’attuazione della stessa Convenzione, fu firmato il Protocollo di Kyoto. Tale trattato definiva i limiti di emissioni per i vari paesi firmatari, con l’obbiettivo, come abbiamo visto, di stabilizzare i valori a livelli pre-anni ’90. Come determinato già durante la COP di Berlino, ai paesi membri dell’Allegato III non venne imposto alcun limite vincolante, mentre ai membri degli altri due allegati vennero assegnate varie riduzioni percentuali, fino ad un massimo del 7%. L’intero processo venne duramente criticato dai Paesi industrializzati maggiormente colpiti dalle riduzioni, in particolare dagli USA, che ritenevano che gli obbiettivi ambientali non dovessero essere raggiunti a discapito dello sviluppo economico. Gli stessi stati criticavano la natura rigida e top-down delle regole imposte dal Protocollo di Kyoto, e suggerivano un processo bottom-up di libera offerta delle proprie quote di riduzione.

Tuttavia, le tensioni legate all’adozione del Protocollo di Kyoto tornarono a farsi sentire in occasione della COP 4, svoltasi a Buenos Aires nel 1998, ma soprattutto nel corso della COP 6, tenutasi all’Aja nel 2000. In occasione di quest’ultimo incontro, infatti, la proposta degli Stati Uniti di sottrarre dal computo totale delle emissioni previste per ciascun paese i “serbatoi” di CO₂ rappresentati dalle foreste (di cui il Nord America è ricco) suscitò forti opposizioni. Questo progetto avrebbe permesso agli Stati Uniti di ridurre i propri obblighi in maniera significativa, perché la percentuale di riduzione prevista dal Protocollo (7%) sarebbe stata coperta quasi completamente dal carbonio prodotto dalle loro foreste. La forte contrarietà nei confronti di tale proposta da parte di alcuni stati, in primis quelli europei, portò all’interruzione dei negoziati. Da qui la decisione degli USA di non aderire al Protocollo.

Nonostante queste premesse, l’incontro riuscì a dirimere molti degli aspetti rimasti in sospeso, accogliendo anche diverse delle proposte fatte dagli USA in precedenza, quali la compravendita delle emissioni (che ne avrebbero consentito una riduzione più flessibile e graduale), l’implementazione congiunta (che consente ai Paesi di coprire parte della propria riduzione di emissioni in uno stato estero piuttosto che in patria, offrendo quindi ai paesi più sviluppati la possibilità di perseguire i propri obbiettivi in paesi in cui i costi di implementazione siano inferiori, e ai paesi meno sviluppati di crescere economicamente e acquisire nuove tecnologie “verdi”), e il Clean Development Mechanism che sovvenziona le attività summenzionate di riduzione delle emissioni da parte dei Paesi sviluppati nel territorio dei Paesi meno sviluppati, senza un tetto massimo. Si decise inoltre di offrire crediti a quelle attività che avrebbero assorbito o immagazzinato anidride carbonica, richiamando così la proposta degli USA sull’utilizzo delle foreste come serbatoi di gas serra.

Nonostante tutto ciò, il rallentamento dei lavori sul trattato, unito alle perplessità del mondo scientifico sulla debolezza generale delle proposte fatte, pesarono notevolmente sul Protocollo di Kyoto, che riuscì a raggiungere il numero di ratifiche necessarie alla sua entrata in vigore solo nel 2005, sette anni dopo la sua adozione.

Fin dal 2007, con la COP 13, si iniziò a lavorare all’ipotesi di adottare un nuovo trattato in grado di permetere la partecipazione anche degli gli Stati Uniti, senza i quali si riteneva impossibile raggiungere gli obbiettivi previsti. Di contro, si decise di prolungare l’efficacia del Protocollo di Kyoto fino al 2020, essendo impossibile oramai raggiungere gli obbiettivi prefissati per la scadenza originaria del 2008-2012.

La fase negoziale di un nuovo accordo raggiunse importanti progressi nel corso della COP 15 di Copenaghen, dove si aprì per la prima volta al concetto di riduzione volontaria delle emissioni proposta originariamente dagli Stati Uniti, con dichiarazioni unilaterali da parte dei singoli Paesi; si stabilì inoltre di fissare il contenimento dell’aumento di temperatura a 2°C, secondo le indicazioni dell’IPCC, invece di far riferimento ai valori pre-anni ’90 menzionati negli Accordi di Rio, ritenuti un obbiettivo troppo arbitrario.

Tali decisioni furono riprese nell’Accordo di Parigi, siglato nel 2015 nel corso della COP 21, con alcune modifiche: innanzitutto, i Paesi firmatari sarebbero stati considerati tutti sullo stesso piano, secondo il principio di responsabilità orizzontale, attenuando quindi l’impatto del controverso concetto delle “responsabilità comuni ma differenziate”. Si decise inoltre di introdurre alcuni meccanismi di trasparenza e monitoraggio che garantissero l’effettiva efficacia dei contributi unilaterali proposti a Copenaghen: innanzitutto, tali contributi avrebbero dovuto essere rivisti al rialzo ogni cinque anni; secondariamente, gli impegni presi da ciascun Paese e le motivazioni addotte per gli stessi sarebbero stati resi pubblici e offerti ad un sistema di peer review a cui sarebbe stato consentito di fare osservazioni e critiche alle scelte di ciascun paese.

Da ultimo, il margine di aumento di temperature consentito venne ulteriormente ridotto a 1,5°C. Va rilevato come su tale riduzione permangano critiche e perplessità dovute essenzialmente all’apparente arbitrarietà di tale numero. Ci si chiede infatti, per chi un aumento di temperature di questa entità si dovrebbe considerare “accettabile”? Basti pensare che molti Paesi costieri o isolani si trovano già attualmente in una condizione di serio rischio a causa del crescente livello del mare.

Tali risultati provocarono una gran varietà di reazioni negli osservatori: dall’ ottimismo di coloro che apprezzavano il risultato stesso di aver concluso la COP di Parigi con un accordo che sembrava inizialmente assai difficile, alle perplessità e all’insoddisfazione di coloro che vedevano gli impegni assunti come troppo timidi e vaghi per poter arginare realmente il problema del cambiamento climatico.

Gli Stati Uniti hanno ratificato l’Accordi di Parigi una prima volta, con la presidenza Obama e, una seconda volta, con l’amministrazione Biden.  Occorre ricordare, infatti, che con Trump gli USA avevano abbandonato formalmente l’Accordo in linea con la politica in materia ambientale mantenuta nei decenni precedenti. 

A livello generale, possiamo osservare come il sistema di peer review previsto dall’Accordo abbia prodotto già i primi effetti. Mi riferisco, in particolare, al ruolo che la società civile può svolgere ai fini della lotta al cambiamento climatico. A titolo esemplificativo, può essere menzionato il caso Olanda c. Urgenda in cui la Corte suprema olandese ha condannando lo stato a ridurre le proprie emissioni di almeno il 25% entro la fine del 2020. La Corte, fra le motivazioni su cui fondava la sua decisione, richiamava anche il mancato rispetto da parte dell’Olanda degli impegni presi a livello internazionale in materia climatica, fra cui l’Accordo di Parigi.

Tra gli eventi più recenti che meritano di essere menzionati, vi è la COP 26, tenutasi a Glasgow nel 2021 (un anno più tardi rispetto alla data prevista, a causa della crisi sanitaria provocata dalla diffusione del virus Covid-19). L’obbiettivo principale dell’incontro era quello di valutare i risultati raggiunti e rivedere al rialzo – per la prima volta dall’introduzione del meccanismo con l’Accordo di Parigi – l’impegno statale alla riduzione delle emissioni. Tra gli altri obiettivi, quello di valutare una soluzione efficacie per il mercato delle emissioni di carbonio e l’impegno dei Paesi sviluppati di finanziare progetti per contrastare i cambiamenti climatici nei Paesi in via di sviluppo.

Nei mesi più recenti, infine, la guerra Russia-Ucraina sembra minacciare ulteriormente il raggiungimento degli obiettivi previsti in termini ambientali e climatici. Lo scenario di crisi energetica in cui ci muoviamo è in parte simile a quello che si verificò nel 1973 in occasione della guerra arabo israeliana e alla conseguente decisione dei Paesi OPEC di aumentare il prezzo del petrolio.

Potremmo chiederci se non sia cambiato nulla, da allora? Come è chiaro in questi mesi, ci troviamo ancora oggi dipendenti da eventi volatili, imprevedibili e in costante fermento. È evidente come il mondo presente sia fortemente intrecciato in tutte le sue parti – economia e ambiente, politica e sociale – e come l’una non possa essere considerata in modo separato rispetto alle altre.

Elisa Tesone