Fast Fashion: il grave impatto ambientale

Negli ultimi venti anni la globalizzazione ha rivoluzionato l’industria della moda, facendo diventare la Fast Fashion usuale in tutto il mondo. I consumatori, con il tempo, si sono abituati ad un abbigliamento economico, alla moda e veloce a causa del breve ciclo di vita dell’indumento. Lo shopping non viene più visto come un evento raro, necessario, dettato da esigenze di cambi di stagione e di taglie, ma è diventato un’attività impulsiva ed impaziente.

L’idea, alla base di questo nuovo modello di business, è quella di lanciare nuove tendenze attraverso la diffusione di stili innovativi al fine di rispondere, in tempo reale, alle continue esigenze dei consumatori. La realizzazione di tali desideri comporta delle ripercussioni negative sulla sostenibilità ambientale.

La pubblicazione Textiles and the Environment in a Circular Economy (2019) da parte dell’European Environment Agency (EEA) ha evidenziato come l’impatto causato dalla produzione e dal consumo di prodotti tessili, rifletta la complessità e la linearità della loro catena del valore.

In generale, il ciclo di vita del tessile è caratterizzato da 6 fasi:

  1. produzione della fibra;
  2. produzione del prodotto tessile;
  3. distribuzione e vendita;
  4. uso del tessile;
  5. collezione, smistamento e riciclo;
  6. gestione del rifiuto.

Le diverse fasi richiedono l’utilizzo di risorse e del capitale naturale (acqua, energia, agenti chimici, terreno e biodiversità) generando:

  1. il rilascio di emissioni di gas ad effetto serra;
  2. l’inquinamento delle acque e dell’aria;
  3. deforestazione;
  4. perdita di biodiversità;
  5. produzione di rifiuti.

In un’ottica di Fast Fashion, tali effetti hanno subito una crescita esponenziale, incidendo in maniera considerevole sull’esaurimento delle risorse, sul cambiamento climatico e sulla tossicità chimica.

Inoltre, non va sottovalutato il ruolo delle microplastiche. Quest’ultime, infatti, vengono rilasciate nell’ecosistema attraverso il lavaggio di tessuti a base di plastica (poliestere, nylon e acrilico). I dati, nonostante siano ancora incerti, mostrano come circa mezzo milione di tonnellate di microfibre di plastica vengano rilasciate ogni anno nell’oceano, con un possibile aumento da qui al 2050 a più di 22 milioni di tonnellate.

La Fast Fashion, dunque, non è una pratica sostenibile in nessun paese, in particolare nei paesi Asiatici dove, a causa dei bassi costi di produzione e dei poco rigorosi regolamenti ambientali, si produce la quasi totalità dei prodotti tessili. Si ricordi, infatti, che all’Asia è imputabile il 70% delle importazioni europee di prodotti tessili e di abbigliamento.

Il Report “Effective regulations? Environmental impact assessment in the textile and garment sector in Bangladesh, Cambodia, Indonesia and Viet Nam” pubblicato dall’International Labour Organization (ISO) nel giugno del 2021 mostra come a pagarne le conseguenze sia soprattutto il Bangladesh, il secondo centro di produzione di abbigliamento più grande al mondo dopo la Cina.

I danni ambientali più ingenti ricadono sull’utilizzo della risorsa idrica ma, soprattutto, in assenza di impianti di smaltimento dei rifiuti tossici, liquidi e solidi, sul rilascio dei residui nei fiumi, fonte di acqua potabile per la popolazione.

Risulta quindi evidente come il processo di realizzazione degli indumenti stia contribuendo a modificare l’ecosistema del paese. I fiumi, a causa del versamento di coloranti, sali e metalli pesanti stanno cambiando colore, portando il governo del Bangladesh a dichiarare tre fiumi biologicamente morti e altri altamente contaminati, senza ossigeno disciolto. Nel paese asiatico, l’inquinamento industriale incide per il 60% sull’inquinamento nello spartiacque di Dhake e le fabbriche di abbigliamento rappresentano il secondo maggior contributore.

Su chi ricade la responsabilità di questa situazione? La sottovalutazione della questione ambientale è da imputare a tutti gli attori coinvolti nella filiera produttiva, dalle grandi aziende di moda ai consumatori che alimentano questo sistema ma, nel caso citato, al Bangladesh stesso. Il governo bengalese, infatti, pur di ottenere una crescita economica, non tiene conto del rispetto dei regolamenti ambientali da parte delle industrie del settore tessile, in primis, la procedura di Valutazione di impatto ambientale (VIA). La VIA, prevista nella normativa bengalese dal 1995, viene vista come un impedimento allo sviluppo e, per tale motivo, la maggior parte delle concerie tessili tendono a non farne un utilizzo efficace.

Ciò, però, va a discapito della tutela ambientale. La VIA è uno strumento fondamentale, infatti, per progettare e garantire uno sviluppo sostenibile. Si ricordi che l’ambito normativo influenza notevolmente le pratiche e gli attori del settore, fornendo sia la protezione delle risorse ambientali sia la sussistenza alle comunità che dipendono da tali risorse.

Oltre ad una maggiore attenzione alle diverse regolamentazioni, essenziale è rivedere la catena di approvvigionamento del tessile e dell’abbigliamento. La scelta dei materiali utilizzati nei filati e nei tessuti dovrebbe rappresentare il primo cambiamento. L’uso di fibre riciclate può ridurre notevolmente il consumo di energia e risorse, apportando benefici ambientali ed economici. La tracciabilità dei rifiuti e l’assenza di sostanze chimiche preoccupanti rappresentano le basi al fine di un riciclaggio sicuro e di alta qualità.

In conclusione, un repentino cambiamento dell’industria tessile dovrebbe essere considerata una priorità primaria, al fine di garantire la tutela della salute e del benessere delle popolazioni maggiormente colpite e allo stesso tempo salvaguardare l’ambiente e le sue risorse naturali.

Martina Moretti