L’obsolescenza programmata: da strategia industriale a criticità ambientale

Nel 1924 i maggiori produttori a livello mondiale di lampadine si riunirono e decisero la comune diminuzione del ciclo di vita delle lampadine a incandescenza. Allo stesso modo, quando venne inventato il Nylon, nel 1937, gli ingegneri della DuPont furono invitati a diminuire la resistenza del prodotto, per evitare che i beni in Nylon risultassero troppo durevoli.

L’obsolescenza programmata, definita come la deliberata riduzione del ciclo di vita di un prodotto, rappresenta da sempre una della più discusse strategie industriali.
Ad oggi, sostituire periodicamente cellulari, tablet e computer è divenuta una prassi usuale, attuata senza considerare i gravi danni che i componenti di cui sono costituiti tali sistemi possono causare all’ambiente se non smaltiti correttamente.
Stime recenti mostrano come ogni anno nel mondo vengano generate circa 50 tonnellate di rifiuti elettronici.  Di queste, la maggior parte finiscono per essere esportate verso Paesi con una legislazione ambientale poco stringente, aumentando il rischio che sostanze come mercurio, piombo e cadmio possano essere sversate nei corsi fluviali o nel sottosuolo.

Nonostante si tratti di un tema che solo recentemente è entrato nella coscienza comune, esistono a livello normativo degli atti che sono stati adottati proprio per arginare questa problematica e, soprattutto, per limitare le sue gravi conseguenze in termini ambientali.

L’Unione europea ha iniziato ad interessarsi a tale problema nel 2005 con la Direttiva 2005/29/CE, che rappresenta uno dei primi riconoscimenti giuridici della pratica dell’obsolescenza programmata (recepita in Italia con Decreto legislativo n.146 del 2007).
La Direttiva individuava la necessità di garantire un elevato livello di tutela per il consumatore, armonizzando le normative dei diversi Paesi dell’Unione (art. 1). In particolare, si riteneva sleale, in quanto ingannevole, ogni pratica commerciale che inducesse o fosse idonea a indurre il consumatore ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso (art. 6). Tra queste pratiche ritroviamo anche le azioni che provocavano “la necessità di manutenzione, ricambio, sostituzione o riparazione” di un prodotto. Veniva così previsto l’obbligo in capo agli Stati membri di prevedere i mezzi più adeguati a combattere tali pratiche ingannevoli, promuovendo la possibilità anche di un ricorso giudiziale.

Nonostante sia stata considerata un grande passo in avanti in materia di protezione del consumatore, tale Direttiva non ha avuto l’impatto che si sperava in materia di obsolescenza programmata.
Va detto, infatti, che la problematica più importante che si riscontra è che, nel caso dei prodotti elettronici, l’obsolescenza viene pianificata a livello di software, così che il consumatore non possa fare altro che sostituire un prodotto che non è in nessun modo possibile riparare.
In questo contesto, assume particolare rilievo il documento “Towards more sustainable consumption: industrial product lifetimes and restoring trust through consumer information” adottato dal Comitato economico e sociale europeo (EESC) nel 2013, in cui si suggeriva di vietare tutte quelle pratiche aziendali di incorporazione nei prodotti dei cosiddetti “built-in defects”.

Più recentemente, il problema è riemerso attraverso la pubblicazione di due Report che hanno messo in luce la problematica dell’obsolescenza programmata e che hanno raccomandato al Parlamento e alla Commissione europea di dotarsi di una legislazione ad hoc per contrastare tale pratica.

Nel primo, pubblicato sempre dall’EESC (“EESC study on planned obsolescence”) nel 2016, viene messa in luce l’effettiva riduzione generalizzata della vita utile dei prodotti, e le conseguenze che tale prassi provoca in termini di rischi per l’ambiente a causa dell’aumento dei rifiuti (1), nonchè la preferenza dei cittadini europei verso prodotti maggiormente durevoli, talvolta non acquistati per le scarse informazioni riguardo la loro vita utile (2).

Il secondo Report, presentato dal Parlamento europeo nel 2016 (A Longer Lifetime for Products: Benefits for Consumers and Companies), analizza i potenziali impatti che cicli di vita più lunghi dei prodotti avrebbero su consumatori e imprese. Il Report, nell’evidenziare la quasi assenza di conseguenze negative, rileva come l’aumento della vita utile dei prodotti determinerebbe benefici sociali, ambientali ed economici, soprattutto per quelle imprese che riuscirebbero ad approfittare dell’aumento della vita utile dei propri prodotti.

In Italia invece, l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM), applicando il Codice del Consumo, ha multato con due provvedimenti del 2018 Apple e Samsung per avere rilasciato aggiornamenti software che provocavano il peggioramento delle prestazioni di alcuni smartphone.

Si ricordi che il Codice assicura una tutela per i diritti dei consumatori nei confronti della problematica dell’obsolescenza programmata, ma non analizza tale pratica aziendale dal punto di vista della tutela ambientale.
Sotto questo punto di vista, occorre ricordare che sono state presentate a livello parlamentare due proposte di legge:

a) la prima, nel 2013, (Proposta di legge n. 1563/2013) mirava al riconoscimento dell’obsolescenza programmata come una pratica penalmente perseguibile e prevedeva l’istituzione presso il Ministero dello Sviluppo Economico di un’autorità di vigilanza sui prodotti in commercio sul mercato nazionale;

b) la seconda, nel 2015 (Disegno di legge n. 615/2015), proponeva, in ottica preventiva, misure che rendevano la pratica dell’obsolescenza insostenibile per le imprese, estendendo il periodo entro il quale il produttore era ritenuto responsabile del difetto del bene in commercio, riconoscendo anche in questo caso l’obsolescenza programmata come un’attività perseguibile penalmente. Particolarmente emblematico è il passaggio in cui si sottolinea: “Non è più ammissibile giustificare questo ricorso e questo abuso dell’obsolescenza programmata poiché il sistema sociale globale e quello ambientale-climatico non riescono più a sostenere tale carico.”

In conclusione, possiamo affermare che i tentativi sia a livello europeo che nazionale di regolamentazione della pratica dell’obsolescenza programmata non hanno, finora, impedito il verificarsi delle conseguenze negative sull’ambiente. Tuttavia, le stesse iniziative hanno favorito la nascita di una “moral suasion” in materia, che ha portato le maggiori aziende operanti nell’High Tech a rivedere le loro pratiche aziendali in tema di obsolescenza.
Un esempio indicativo è Apple che nel giro di poco tempo è passata dalla pratica di rilasciare frequenti aggiornamenti software dannosi ad essere in prima linea per la lotta all’economia lineare. Ad essa si deve, infatti, l’introduzione di uno dei primi programmi di Self Service Repair dei propri prodotti, mettendo in vendita componenti e kit di riparazione del proprio smartphone, allo scopo di estenderne la vita utile in favore di un’impostazione maggiormente sostenibile.

Alessandro Criscuolo