Negli ultimi decenni la tematica ambientale, declinata in una moltitudine di rivendicazioni di natura locale o globale, è diventata un elemento centrale in diverse mobilitazioni: basti pensare, ad esempio, al panorama italiano caratterizzato dai No Tav in Val Susa e dai no Tap in Salento. A livello globale, come noto, il movimento «Friday for Future» (Giovani e Clima: la Pre-COP26), nato nel 2018 ed ispirato da Greta Thunberg si può inquadrare come la più recente prova del crescente interesse della popolazione e, in particolar modo delle nuove generazioni, nei confronti della tutela ambientale.
A livello nazionale, tra le mobilitazioni più recenti, merita una particolare menzione quella relativa alla governance del servizio idrico nazionale.
Le origini del movimento “per l’Acqua Bene Comune” risalgono agli anni Novanta del secolo passato quando in Italia e in Europa, sulla spinta delle decentralizzazioni dei servizi dello Stato e della liberalizzazione dei servizi pubblici, sono state approvate specifiche normative per modernizzare e razionalizzare l’erogazione del servizio idrico.
In particolare, la Legge numero 36 del 1994, conosciuta come «Legge Galli», ha introdotto una serie di novità significative all’interno del settore: dalla definizione del servizio idrico integrato, alla istituzione degli ATO (ambiti territoriali ottimali).E’ possibile sintetizzare gli obiettivi perseguiti dalla Legge Galli come segue:
- separare la titolarità pubblica dal servizio e dalla gestione privata dello stesso;
- attrarre capitali privati nella gestione ed erogazione del servizio idrico;
- conferire agli enti locali il compito di disciplinare i rapporti con il gestore.
Queste misure sono una diretta conseguenza di una nuova modalità di gestione del settore pubblico di ispirazione anglosassone, che ha l’obiettivo di integrare il diritto amministrativo con i dettami gestionali delle imprese private orientate al risultato, metodologia nota come «New Pubblic Management».
Nel 2009 il processo di liberalizzazione dell’acqua viene stimolato ulteriormente tramite l’approvazione del «Decreto Ronchi» (Decreto-legge n. 135 / 2009) che, recependo la disciplina comunitaria in materia di servizi pubblici di rilevanza economica (Direttiva 2006/123/CE), obbligava gli enti locali a conferire in via ordinaria mediante gara ad evidenza pubblica, l’erogazione di tali servizi a società miste, la cui quota di capitale privato non doveva essere inferiore al 40%. Questo intervento normativo rendeva molto difficile la gestione in-house del servizio, dovendo l’ente agire in deroga e previo parere positivo dell’autorità garante del mercato e della concorrenza.
L’approvazione del «Decreto Ronchi» ha condotto l’opinione pubblica ad avviare un movimento plurale e di massa che, dietro lo slogan «Acqua Bene Comune», ha aggregato l’interesse di milioni di cittadini e polarizzato il dibattito pubblico nel corso di pochi mesi. Coloro che si opponevano al modello di governance dei servizi pubblici di rilevanza economica sostenevano che la normativa vigente, da un lato, incoraggiasse la privatizzazione dei servizi idrici e consentisse ai privati di estrarre valore dalla mercificazione dell’acqua e, dall’altro lato, che venisse sconfessato il ruolo dell’acqua come risorsa imprescindibile per il pieno godimento della vita umana, essendo sottoposta anch’essa a dinamiche di mercato e, quindi, di profitto.
Grazie a questi movimenti, tra i mesi di marzo e luglio del 2010 furono raccolte oltre un milione e quattrocentomila firme a sostegno di 3 quesiti referendari abrogativi:
- l’abrogazione dell’art. 23 bis della Legge n. 133/2008, relativo alla privatizzazione dei servizi pubblici di rilevanza economica;
- l’abrogazione dell’art. 154 del Decreto Legislativo n. 152/2006 (c.d. Codice dell’Ambiente), limitatamente a quella parte del comma 1 che dispone che la tariffa per il servizio idrico è determinata tenendo conto dell’«adeguatezza della remunerazione del capitale investito»;
- l’abrogazione dell’art. 150 del Decreto Legislativo. n. 152/2006 (c.d. Codice dell’Ambiente), relativo alla scelta della forma di gestione e procedure di affidamento, segnatamente al servizio idrico integrato;
A seguito di ciò la Corte costituzionale ha dichiarato ammissibili due dei tre quesiti referendari (Sentenza n.36 del 2011) e al successivo referendum del 12 e 13 giugno del 2011 il SI (a favore dell’abrogazione) ha ottenuto oltre il 95% dei voti.
Va detto, che la Comunità europea fin dai suoi primissimi passi nella seconda metà dello scorso secolo, ha sin da subito manifestato il suo interesse nei confronti delle politiche idriche ed in particolar modo nei confronti della tutela delle acque dolci.
A partire dalla metà degli anni ’70, infatti, si sono susseguite una serie di direttive e risoluzioni con un duplice scopo: da un lato, quello di fissare gli standard europei in materia di usi, qualità e tutela delle acque e, dall’altro, quello di compiere significativi passi in avanti nella formulazione di un diritto soggettivo all’acqua da parte dell’uomo.
Particolare menzione merita la Direttiva 2020/2184, l’ultima in ordine temporale, che ha aggiornato e ridotto la soglia per alcuni contaminanti al fine di rendere l’acqua destinata al consumo umano ancora più sicura anche contro le nuove sostante inquinanti. Questa Direttiva, inoltre, ha assunto un significato speciale in quanto è il primo atto legislativo europeo adottato grazie alla campagna di democrazia partecipativa «Right2Water», nata con lo scopo sensibilizzare la Commissione Europea al fine di implementare il diritto all’acqua in Europa e negli stati membri (Lo stress idrico in Europa e in Italia).
L’attivismo giuridico europeo sulla tematica idrica non si è esaurito con l’approvazione di normative in materia, ma si è caratterizzato anche per il tentativo di un’esplicita formulazione di un diritto soggettivo come diritto umano. All’Unione Europea si deve, infatti, l’adozione di due risoluzioni del Parlamento Europeo (Risoluzione del 4 settembre 2003 e Risoluzione del 9 ottobre 2008) che hanno spinto l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ad adottare la Risoluzione A/64/L.63 del 26 luglio 2010 (The Human Right to Water and Sanification) nella quale l’accesso all’acqua è stato definito «come diritto imprescindibile per il pieno godimento della vita umana».
Tuttavia, nonostante decisivi passi in avanti, va constato che a distanza di più di dieci anni dal referendum abrogativo sull’acqua del 2011 nulla è cambiato nel nostro Paese. Il legislatore, nonostante il susseguirsi di 8 governi diversi, non ha adottato alcun disegno di legge, malgrado ve ne siano diversi depositati presso le camere, disattendendo così le aspettative di tutti coloro che si erano espressi a favore dell’abrogazione. Si ricordi, infatti, che il referendum del 2011 è stato l’unico negli ultimi 25 anni in Italia a superare il quorum del 50% dei votanti più 1.
Da ultimo, nel corso del 2021, a seguito dell’approvazione da parte del governo Draghi del cd «DDl Concorrenza» (Decreto legislativo n.170 del 4 novembre 2021), il Forum dell’Acqua Bene Comune ha sottolineato come con l’art. 6 del Decreto “si produce un totale e definitivo ribaltamento della realtà, indicando la gestione pubblica dei servizi da parte dei Comuni come straordinaria e residuale e l’affidamento al mercato come la normalità della gestione dei servizi” e “che a fronte di questo attacco serva una urgente ed ampia mobilitazione, che veda insieme enti locali, movimenti, sindacati e associazioni per il ritiro immediato di quanto contenuto nel provvedimento”.
Luca Antonio Barbieri