L’acquacoltura tra sfruttamento e sostenibilità

Analizzando la tematica del disequilibrio tra uomo e natura, è fondamentale focalizzare la nostra attenzione sugli allevamenti intensivi, in particolare su quelli ittici.

L’acquacoltura è un’importante attività di allevamento animale in grado di garantire elevati standard ambientali. Da diversi anni è il settore alimentare che registra il maggior sviluppo, con un tasso di crescita medio annuo del 6-8% su scala mondiale.

Tuttavia, come tutte le attività che incidono sull’ambiente, potenziali effetti negativi possono derivare dal sistema di allevamento, dalla specie allevata, dal sito d’allevamento e dal tipo di risorsa idrica utilizzata. I sistemi intensivi possono determinare pressioni di diversa natura sugli ambienti e sugli ecosistemi acquatici a causa, ad esempio, della diffusione di agenti patogeni (virus, batteri e funghi) e dell’uso di farine e/o oli di pesce, fattori, questi, fortemente inquinanti. Si parla, infatti, di tonnellate di rifiuti e di liquami scaricati in mare e nei fiumi che, a loro volta, generano attività batterica.

Inoltre, occorre ricordare che, annualmente, la cattiva e forzata alimentazione imposta ai pesci all’interno di questi allevamenti produce circa 500 mila tonnellate di escrementi. A tutto ciò si aggiunge il fatto che vengono dispersi in mare anche i medicinali somministrati ai pesci d’allevamento e che loro stessi rilasciano nell’acqua attraverso gli escrementi.

Un’altra questione sempre più importante negli ultimi anni è legata al fatto che gran parte del pesce “pescato” non sia destinato al consumo, ma venga a sua volta utilizzato come mangime negli allevamenti ittici sotto forma di farina e olio di pesce. A questo proposito, risulta interessante quanto rivelato da una ricerca pubblicata da Greenpeace nel 2019. Lo studio, il cui focus era rivolto alla regione africana, ha mostrato come le risorse ittiche pescate (principalmente di tipo pelagico) non venissero utilizzate a fini alimentari, ma fossero trasformate e, successivamente, esportate all’estero come mangime per gli allevamenti intensivi. Tutto ciò a scapito della sicurezza alimentare di questi stati costieri.

Uno dei paesi in cui è più evidente tale fenomeno è la Mauritania dove, tra il 2014 e il 2018, le esportazioni di farina e olio di pesce sono raddoppiate. Ad oggi, insieme al Marocco, la Mauritania è il maggiore esportatore di tali prodotti della regione. Lo studio rivelava, inoltre, che tra Mauritania, Senegal e Gambia erano attivi circa 90 impianti di produzione di mangime per pesci e che la maggior parte delle esportazioni erano dirette verso la Cina, i paesi dell’UE, la Turchia e il Vietnam.

Va detto, infine, che la pesca intensiva dei pesci pelagici (negli ultimi 25 anni la pesca di questi pesci è più che duplicata) sta avendo ricadute negative in termini di perdita di biodiversità marina.

A livello europeo, il fondamento giuridico della politica comune della pesca (PCP) è rintracciabile nel Trattato di Roma (1957), prima, e nel TFEU, poi (2009, artt. dal 38 al 43). Essa, per lungo tempo associata alla politica agricola, ha via via acquisito una sua indipendenza. Revisionata nel 2002 al fine di garantire una pesca sostenibile, nonché redditi e occupazione stabili per i pescatori, nel 2013 è stato raggiunto un accordo a livello europeo su un nuovo regime di pesca basato su tre pilastri principali:

  • il Regolamento (UE) n. 1379/2013, relativo all’organizzazione comune dei mercati nel settore dei prodotti della pesca e dell’acquacoltura;
  • il Regolamento (UE) n. 1380/2013, relativo alla politica comune della pesca;
  • il Regolamento (UE) n. 508/2014, relativo al Fondo europeo per gli affari marittimi e la pesca.

La riforma del 2013 ha cercato di garantire la sostenibilità a lungo termine delle attività di pesca e di acquacultura sotto il profilo ambientale, economico e sociale, e ha specificato come la sostenibilità debba fondarsi su pareri scientifici attendibili e sul principio di precauzione.

Al di là della gestione della pesca a livello europeo in termini generali, va detto che ad oggi non esiste una disciplina specifica che regolamenti il benessere dei pesci all’interno degli allevamenti intensivi. Per questo occorre richiamare la direttiva 98/58/CE del Consiglio che stabilisce norme minime riguardo alla protezione degli animali negli allevamenti, compresi i pesci. Menzione meritano, inoltre, le raccomandazioni e linee guida elaborate in materia di benessere dei pesci di allevamento dal Consiglio d’Europa (2005) e dall’Organizzazione mondiale per la salute animale (OIE – 2008) e i codici di condotta adottati a livello industriale. Interessante è anche l’attività svolta dalla Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare (European Food Safety Authority – EFSA), un’agenzia europea che, nello specifico, si è occupata fin dalla sua istituzione (2002) del benessere dei pesci nelle varie fasi (trasporto, allevamento, gestione e macellazione).

In conclusione, ci si chiede in che modo sia possibile sostituire gli allevamenti intensivi attuali con sistemi di produzione alternativa. Tra le varie prospettive, anche lo sviluppo di nuovi ingredienti sostenibili e circolari, a zero impronta carbonica. Pensiamo, ad esempio, all’introduzione di proteine vegetali (plant protein) o di proteine batteriche recuperate da lieviti, funghi e scarti di altre filiere. Indubbiamente, scelte consapevoli da parte dei singoli cittadini possono influire sull’utilizzo di un modello più sostenibile di acquacoltura. Tuttavia, ciò non esime il legislatore europeo dal dovere di meglio regolamentare il settore così da incidere e diminuire l’impatto ambientale degli allevamenti intensivi di pesce.

Beatrice Russo