Ambiente e diritto internazionale

Il tema dell’ambiente è percepito fra i più importanti della politica internazionale attuale, grazie anche ai report scientifici che, negli ultimi decenni, ne hanno sempre dato maggiore rilevanza e centralità. Risulta, dunque, importante ripercorrere la storia del Diritto ambientale nel corso dell’ultimo secolo, in particolare nella sua lotta costante al cambiamento climatico, evidenziando quei fattori che primariamente e consistentemente appaiono influenzare le scelte umane in ogni fase della sua storia, allo scopo di facilitare, si spera, future analisi e direzioni che guideranno questo campo negli anni a venire.

Le origini del Diritto internazionale dell’ambiente hanno in realtà molto poco a che fare con un interesse specifico per l’ambiente in sé e per sé; prendiamo ad esempio il famoso Trail Smelter Case che vide contrapposti Stati Uniti e Canada per una questione di inquinamento transfrontaliero agli inizi degli anni ’40 del ventesimo secolo, dovuto ai fumi sulfurei provenienti dalla Fonderia della città di Trail, in British Columbia (Canada), di proprietà della Compagnia COMINCO, che avrebbero causato danni a foreste e campi coltivati, oltre a sollevare le proteste degli abitanti della zona circostante. Nella sentenza, il tribunale arbitrale si soffermava ripetutamente sulla necessità di giungere ad una conclusione che fosse “giusta per tutte le parti coinvolte”, poiché, “non risulterebbe vantaggioso per alcuno dei due paesi coinvolti se gli sforzi industriali dovessero venir ostacolati in conseguenza dell’esagerazione degli interessi agricoli. Similmente, l’oppressione della comunità agricola ai fini di avanzare gli interessi dell’industria non risulterebbe vantaggiosa per alcuno dei due paesi coinvolti”. Le “parti coinvolte”, dunque, si riferiscono ai diritti economici sovrani dei due paesi, piuttosto che al danno materiale apportato all’ambiente o anche solo ai suoi abitanti. Da ultimo, la sentenza conclude che “nessuno stato ha il diritto di utilizzare il proprio territorio, o consentire l’utilizzo del proprio territorio, in una maniera tale da causare danno” ai territori e alle proprietà altrui. Una questione comunemente considerata “di buon vicinato” che pur prendendo in considerazione elementi fondamentali di Diritto internazionale, quali l’autorità sovrana di un paese sulle proprie risorse e sul loro utilizzo, non si sofferma sui diritti individuali delle persone coinvolte, al di là del danno materiale subìto, e sull’intrinseco danno all’ambiente.

Al fine di individuare la nascita del Diritto internazionale dell’ambiente propriamente detto è necessario, però, spostare l’attenzione agli anni ’70, periodo storico che vede l’apice e il declino progressivo del boom economico post-bellico e caratterizzato da una crescente consapevolezza dell’impatto pervasivo della rapida industrializzazione del mondo occidentale sull’ambiente e sulle risorse naturali.

È proprio in questo contesto di grande fermento che la nascita del Diritto internazionale dell’ambiente va a collocarsi, con la convocazione della Conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente umano (comunemente nota come Conferenza di Stoccolma, giugno 1972). Si tratta della prima conferenza in cui le problematiche ambientali vengono presentate ad un pubblico di scala globale costituendo un punto di svolta nella storia delle politiche ambientali internazionali.

Nella Dichiarazione finale, la consapevolezza del ruolo dell’uomo nel plasmare l’ambiente (“siamo giunti ad un punto della storia in cui dobbiamo regolare le nostre azioni nel mondo con una maggiore prudenza e attenzione nei confronti delle conseguenze ambientali” par.6),  è accompagnata da quella del ruolo dei paesi industrializzati nello sfruttare i paesi ex-colonia. Tali concetti ricorrono in numerosi principi della Dichiarazione, come nel caso del concetto della responsabilità dei Paesi sviluppati nei confronti dei Paesi in via di sviluppo che emerge dai principi 9, 10, 11 e 12, sotto forma dell’imperativa necessità di ridurre il gap economico fra paesi, anche tramite lo scambio di ingenti risorse economiche da parte dei paesi industrializzati per rimediare al proprio ruolo nell’impoverimento dei paesi ex-colonia. Nella Dichiarazione viene, altresì, menzionata la responsabilità delle generazioni presenti nei confronti quelle future, nonché riflesso della crescente consapevolezza del ruolo che l’uomo stesso ha nel plasmare la natura e nel preservarla per gli interessi presenti e futuri di tutta l’umanità (principi 2,4,5). Al principio 21, inoltre, si afferma come “gli stati hanno il diritto sovrano allo sfruttamento delle proprie risorse nel perseguimento delle proprie politiche ambientali, e la responsabilità di assicurare che le attività compiute sotto la propria giurisdizione o controllo non causino danni all’ambiente di altri Stati o alle aree esterne ai confini di giurisdizione nazionale”, un concetto figlio del lungo percorso iniziato con il Trail Smelter Case.

La Conferenza di Stoccolma e la sua Dichiarazione di 26 principi non sono, tuttavia, l’unico risultato del fermento degli anni ’70, basti pensare all’istituzione dell’UNEP (United Nations Environment Programme) da parte delle Nazioni Unite, organo incaricato di aiutare i paesi nella tutela all’ambiente e nella lotta al cambiamento climatico, tramite lo sviluppo e l’implementazione di accordi internazionali e la diffusione della scienza ambientale. Tale organismo ha favorito nel tempo la convocazione di conferenze e l’adozione di trattati internazionali di natura ambientale, fra cui, la Convenzione di Ginevra sull’inquinamento transfrontaliero di lungo raggio (1979) che riprende e sviluppa proprio il Principio 21 della Dichiarazione di Stoccolma.

Nel corso del decennio successivo, invece, meritano di essere menzionate la Convenzione di Vienna sulla protezione dello strato dell’ozono (1982) e il Protocollo di Montreal sulla riduzione dei gas che impoveriscono l’ozonosfera (1987), entrambe adottate sotto l’egida dell’UNEP. Tali trattati, visti come una storia di successo nel contesto del Diritto internazionale dell’ambiente, vanno però considerati in un’ottica di natura primariamente economica: l’abbandono dei clorofluorocarburi (CFC) risulta infatti economicamente vantaggioso per i suoi utilizzatori, facilitando tale shift produttivo.

Sempre nei primi anni ’80 si colloca la Conferenza di Montego Bay (1982) e la conseguente adozione dell’UNCLOS (United Nations Convention on the Law of the Sea), un trattato internazionale che definisce diritti e responsabilità degli stati nell’utilizzo di mari e oceani. Tale Convenzione si sofferma non solo su diritti e doveri degli stati sovrani nei confronti delle proprie acque territoriali, ma anche sulla definizione e protezione della cosiddetta Area, ovvero le zone di Alto Mare sulle quali nessuno stato può vantare diritti sovrani. L’articolo 136 della Convenzione definisce l’Area come “Eredità comune dell’umanità” e procede dunque a disconoscere, nell’articolo 137, qualsiasi futura rivendicazione sovrana sulla stessa, dichiarandola sotto la giurisdizione di un’autorità volta a gestirla a favore dell’umanità nel suo complesso, in particolare per quel che riguarda la risorsa mineraria di noduli di polimanganese presenti nei fondali marini.

Per tale scopo, la Convenzione prevede l’istituzione di un’Alta autorità per i fondali marini superpartes dedita alla cura e gestione di una porzione della res communis, il cosiddetto Patrimonio Comune dell’Umanità. Tale concetto, espresso all’art. 140 della Convenzione, assicura un’equa ripartizione dei vantaggi derivanti dallo sfruttamento dell’Area a beneficio di tutti gli stati, dotati o meno di accesso al mare, con particolare attenzione agli Stati in via di sviluppo o che non abbiano ancora conseguito la piena indipendenza governativa.

IL RAPPORTO BRUNDTLAND

La fine degli anni ’80, oltre a segnare la chiusura di un periodo storico durato per decenni, il periodo della Guerra Fredda, ha portato alla luce una presa di coscienza della natura olistica del sistema Terra, ovvero della necessità di gestire il pianeta non come una collezione di identità sovrane separate le une dalle altre, ma come un unicum in cui le scelte di ciascuno avranno un’influenza sul totale. Tale presa di coscienza si esprime nel cosiddetto Rapporto Brundtland, intitolato “Our Common Future” e realizzato nel 1987 sotto la direzione di Gro Harlem Brundtland, allora Primo Ministro della Norvegia e presidente della Commissione mondiale su ambiente e sviluppo (WCED), istituita nel 1983 dalle Nazioni Unite allo scopo di elaborare linee guida per la gestione del problema ambientale. La sfida della Commissione era quella di conciliare i punti di vista e le necessità di esperti di campi diversi – scienziati e industriali, agronomi, centri di ricerca, rappresentanti governativi e non – provenienti da 21 paesi. Il risultato fu un Rapporto considerato tutt’ora uno dei capisaldi della storia della protezione ambientale. Tale Rapporto, che segna la fine della fase del Funzionalismo, sottolinea come “l’ambiente non esiste come sfera separata dalle azioni, ambizioni e necessità umane, e che i tentativi compiuti di proteggerlo in maniera isolata rispetto alle preoccupazioni umane hanno finito per conferire al termine stesso “ambiente” una sfumatura di ingenuità in alcune cerchie politiche”. Il Rapporto si sofferma sulla necessità imperativa di considerare lo sviluppo economico fianco a fianco alla protezione ambientale, poiché “molte forme di sviluppo erodono le stesse risorse ambientali sulle quali si basano, e similmente il degrado ambientale può ostacolare lo sviluppo economico”, riprendendo quindi il concetto, già espresso nella Dichiarazione di Stoccolma, dell’interrelazione fra problemi ambientali e sottosviluppo economico e sociale.

Il Rapporto Bruntland introduce due concetti di portata rivoluzionaria nella storia della gestione ambientale: lo sviluppo sostenibile e la giustizia intergenerazionale. Si legge infatti: “L’umanità possiede la capacità di rendere il suo sviluppo sostenibile, in modo da consentire alla popolazione attuale di soddisfare i propri bisogni senza compromettere l’abilità delle generazioni future di fare lo stesso”. Si sottolinea quindi la necessità di ripensare le modalità di sviluppo e lo stile di vita sia nei paesi in crescita, sia nei paesi più ricchi, di modo che la dimensione della popolazione e la sua crescita siano in armonia con la capacità produttiva intrinseca degli ecosistemi.

Queste osservazioni, aprendo una nuova era nell’approccio al rapporto uomo-ambiente, sono state, però, oggetto di grande dibattito e causa di tensioni a livello internazionale. Infatti, se la necessità di adattare le nostre azioni ai limiti intrinseci della natura appare evidente, fare il primo passo verso un cambiamento di stile di vita e di crescita, spesso percepito come un ridimensionamento o addirittura un passo indietro, crea invece risentimento e timore,

Lo stesso concetto di Giustizia intergenerazionale risulterà un argomento a tratti scottante, soprattutto dal punto di vista legale. Chi parlerà per le popolazioni future? Chi possiede l’autorità giuridica necessaria a protestare una violazione dei diritti di un futuro che potrebbe non essere ancora nato? Queste ed altre problematiche porteranno quindi alla lenta e faticosa rivoluzione, tutt’ora in corso, che accompagna a livello giuridico il nostro mondo in rapido cambiamento.

DAL SUMMIT DI RIO AD OGGI

Il decennio degli anni ’90 si apre con la prima conferenza internazionale post-Guerra Fredda: The United Nations Conference on Environment and Development (UNCED), nota anche come Summit della Terra, tenutasi a Rio de Janeiro nel giugno 1992. La Conferenza fu organizzata, a seguito della raccomandazione del WCED (World Commission on Environment and Development), dall’Assemblea generale dell’ONU, che nel 1989 istituì il comitato preparatorio alla Conferenza e un Working Group (WG-III), con l’incarico di valutare la possibilità di adottare norme in materia di ambiente, attraverso un apposito strumento legale. La prima proposta di un testo normativo, avanzata dal WCED nel 1992 sotto forma di un “Earth Charter”, venne rigettata dai Paesi in via di sviluppo, fra cui la Cina, in quanto ritenuta troppo sbilanciata a sfavore della crescita economica rispetto alla protezione ambientale. Da qui la decisione di adottare una dichiarazione non legalmente vincolante al termine della Conferenza di Rio.

La natura senza precedenti del Summit di Rio non può essere sottostimata in termini di ambizione politica, rivoluzione giuridica e impatto mediatico; basti osservare come, con l’eccezione della “No harm rule” (il principio alla base della sentenza del Trail Smelter Case, ripreso dal principio 2 della Carta di Rio prodotta dall’UNFCCC (Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici), la stragrande maggioranza dei principi introdotti a Rio fossero completamente nuovi.

Nel corso della Conferenza, diversi furono gli atti adottati quali: la Dichiarazione di Rio su Ambiente e Sviluppo, l’Agenda 21 e la Dichiarazione dei principi per la gestione sostenibile delle foreste. Occorre ricordare, inoltre, che furono aperti alle firme due strumenti vincolanti: la Convenzione sulla diversità biologica (CBD) e la Convenzione quadro sul cambiamento climatico (UNFCCC).  La ventata di novità e (pur cauto) di ottimismo per la possibilità di una politica globale, aperta dalla fine della Guerra Fredda, aiutava ad affrontare anche questioni internazionali più scottanti.

Tra i principi più controversi della Dichiarazione di Rio vi è il principio 7, che introduce il concetto di “responsabilità comuni ma differenziate” in base al quale “alla luce delle pressioni che le loro società impongono sull’ambiente globale, e consapevoli delle tecnologie e risorse finanziarie in loro possesso, i paesi sviluppati riconoscono la loro responsabilità nei confronti del perseguimento internazionale di uno sviluppo sostenibile”. Questo principio troverà applicazione in diversi trattati nati dalla spinta post-Rio, fra cui l’UNFCCC e il protocollo di Kyoto ad essa legato, e solleverà la protesta di diversi paesi industrializzati, fra cui gli Stati Uniti, per il diverso regime giuridico che ne discendeva e che risultava più favorevole per i Paesi in via di sviluppo.

Dopo Rio, il confronto e la cooperazione interstatale sono stati affrontate in numerose conferenze. La prima fu il Summit della Terra+5, o Rio+5, organizzato nel 1997 a New York, per valutare i progressi raggiunti nel corso degli anni nell’implementazione di quanto previsto a Rio. Tuttavia, la valutazione finale non fu delle più favorevoli. Si ricordi come rispetto ai partecipanti alla Conferenza di Rio, solo una metà si ripresentò nel 1995.

Anche da un punto di vista dei progressi raggiunti, le valutazioni furono negative. Molte delle indicazioni adottate a Rio, infatti, non trovarono applicazione concreta e alcune delle problematiche evidenziate rimasero inalterate se non addirittura peggiorate. In particolare, venne evidenziata l’inabilità dei paesi coinvolti ad accordarsi sulla rapidità della riduzione delle emissioni di gas serra e sul problema della deforestazione, per non parlare del problema del trasferimento di tecnologie e risorse economiche dai Paesi più sviluppati ai Paesi in via di sviluppo. Da ultimo, la chiusura del Summit senza aver raggiunto un accordo politico venne vista come un insuccesso e un crollo di quella credibilità e fiducia che aveva ispirato in maniera così pronunciata le speranze di Rio.

A far seguito a questo inizio poco promettente fu, nel 2002, il World Summit on Sustainable Development (WSSD) di Johannesburg, organizzato dalle Nazioni Unite a 10 anni dalla Conferenza di Rio (Rio+10). Tale incontro aveva lo scopo di verificare nuovamente i progressi compiuti, più che produrre nuovi testi e trattati. Tuttavia, anche con queste premesse, i negoziati fra i paesi partecipanti (più di un centinaio, seppur con l’assenza degli Stati Uniti) furono lunghi e complessi, non riuscendo ancora una volta a giungere ad un un accordo sulle questioni relative alle energie rinnovabili. La Dichiarazione di Johannesburg, adottata al termine del vertice, poneva l’accento su diversi punti, fra cui l’impegno alla diversificazione dell’approvvigionamento energetico – favorendo in particolare alternative “green” ove possibile – e incoraggiava il partenariato fra settore pubblico e privato per quel che riguardava il perseguimento degli obbiettivi di sviluppo sostenibile per il nuovo millennio. Nel corso del Summit di Johannesburg proseguì, inoltre, il lavoro iniziato a Rio sulla conservazione della biodiversità e si avviarono i negoziati per l’istituzione di un regime giuridico relativo all’accesso alle risorse genetiche di ciascun paese. Sempre a Johannesburg si sottolineò di nuovo l’importanza del Protocollo di Kyoto, il quale stentava a raggiungere il numero di ratifiche minime necessarie alla sua entrata in vigore.

Se il Rapporto Brundtland e la Conferenza di Rio avevano portato dunque una ventata di cauto ottimismo, con la visione di un mondo più unito e aperto alla collaborazione, lo scontro con la complessa realtà di dover conciliare molte necessità e punti di vista differenti – crescita e protezione ambientale, preservazione della sovranità nazionale e necessità di collaborare -, aveva condotto gli sforzi internazionali su un percorso accidentato e ricco di sfide.

Tale percorso condusse, nel 2012, ad un nuovo vertice, noto come Rio+20, per valutare, a vent’anni di distanza dall’originale Summit della Terra, i progressi raggiunti rispetto agli obbiettivi originari e prefissati. La Conferenza venne organizzata, ancora una volta, su iniziativa dell’ONU, a seguito di una decisione presa dall’Assemblea generale nel 2009, al fine di rinnovare l’impegno politico dei paesi partecipanti nei confronti della risoluzione della problematica ambientale e di far convergere nuovamente gli sforzi degli stati verso un piano d’azione comune.

Il risultato finale della Conferenza fu un documento programmatico, “The Future We Want”, incentrato in maniera particolare sullo sviluppo sostenibile, e sulla lotta alla povertà, sul favorire una “Green Economy” sostenibile ed infine sul costruire e rafforzare il framework istituzionale necessario al raggiungimento degli obbiettivi prefissati, con particolare attenzione ai Millennium Development Goals per il 2015. Molti osservatori hanno, però, considerato i risultati di questa conferenza come deludenti, a causa della mancanza di indicazioni concrete nei tagli ai sussidi per i combustibili fossili e nel trasferimento del 7 per mille del PIL ai Paesi in via di sviluppo. Anche il tentativo dell’Europa di estendere la propria Roadmap per la Green Economy a tutti i partecipanti al vertice non ebbe successo, per via dell’opposizione degli stessi PVS.

Tutte queste osservazioni, a oramai dieci anni di distanza, risulteranno probabilmente familiari a coloro che abbiano seguito l’evoluzione degli eventi più recenti. Le questioni relative al rallentamento dei progressi fatti nella lotta al cambiamento climatico, nella collaborazione internazionale e nel perseguimento degli obbiettivi prefissati al di là della mera reiterazione formale del proprio impegno, oggi più che mai sono al centro del dibattito.

Il mondo auspicato nel Rapporto Brundtland, un mondo non idealizzato, ma consapevole della necessità di considerare le esigenze di tutti nella gestione della nostra dimora comune, si è scontrato con la diffidenza e le crisi politiche sempre più accentuate che hanno caratterizzato gli ultimi anni. D’altra parte, non va dimenticato il setback imposto dai due anni di pandemia, da cui ci si sta ancora faticosamente riprendendo.

Elisa Tesone