Water Footprint: quanta acqua per il comparto alimentare?

Nel mondo odierno le risorse idriche presenti sul pianeta stanno vivendo un forte stato di crisi qualitativo e quantitativo.

A causa dell’aumento delle temperature derivante dal cambiamento climatico, infatti, la disponibilità di acqua per il normale svolgimento delle attività umane risulta compromessa, con un potenziale impatto negativo su diversi aspetti della vita delle persone.

Per tali motivazioni, la comunità internazionale ha introdotto, nel tempo, diverse iniziative per la salvaguardia delle risorse naturali acquatiche, nonché modalità globalmente riconosciute per la misurazione e il controllo del consumo di acqua sotto diversi punti di vista.

Uno strumento particolarmente utile per tenere sotto controllo il consumo di questa importante risorsa naturale è l’impronta idrica o Water Footprint, un indicatore multidimensionale che misura la quantità di acqua dolce necessaria per la produzione di beni e servizi destinati al consumo umano. Tale concetto è stato coniato dallo studioso olandese Arjen Hoekstra, sviluppato con un’impostazione di calcolo simile ad altri parametri quali l’impronta ecologica o l’impronta di carbonio.

La Water Footprint può essere misurata in riferimento a diversi tipi di contesto, considerando ad esempio una determinata area geografica, un processo produttivo o una specifica attività, allo scopo di verificare il quantitativo d’acqua da questi impiegato. La piattaforma di collaborazione “Water Footprint Network (WFN)”, che dal 2008 si occupa di promuovere un uso accorto e intelligente delle risorse idriche allo specifico scopo di salvaguardarle, illustra tre componenti per il suo calcolo:

  • Acqua blu: rappresenta il volume di acque superficiali e sotterranee prelevate e destinate ad un utilizzo agricolo, domestico e industriale, che non torna nel ciclo naturale o vi torna in tempi diversi;
  • Acqua verde: si riferisce alla quantità di acqua da precipitazioni atmosferiche disponibile sulla parte di suolo occupata da radici di vegetali, compresa la parte che evapora e quella utilizzata dalle piante stesse;
  • Acqua grigia: è il volume di acqua inquinata, ovvero quella necessaria a diluire gli inquinanti generati dalle attività umane.

La normativa di riferimento internazionalmente riconosciuta è la UNI EN ISO 14046 “impronta idrica (Water Footprint)”, la quale illustra i principi, i requisiti richiesti e le linee guida attuative da applicare in sede di valutazione dell’impronta idrica in base alla metodologia del Life Cycle Assessment (LCA).

Tra i settori produttivi, uno dei comparti maggiormente responsabili del consumo idrico è l’industria alimentare. La produzione di cibo, infatti, richiede quantità considerevoli di acqua dolce in tutte le fasi del processo di produzione, dalla coltivazione alla trasformazione industriale. Questa risorsa risulta notoriamente essenziale per l’allevamento di bestiame e l’irrigazione delle coltivazioni.

Basti pensare che secondo i dati forniti dalla FAO (Food and Agricolture Organisation) l’agricoltura è responsabile del 70% del consumo di acqua dolce globale. Inoltre, il processo di lavorazione degli alimenti, quali la carne, impiega un notevole quantitativo di acqua, portando spesso a sprechi incontrollati che contribuiscono ad incrementare l’impronta idrica del settore.

È necessario specificare che prodotti diversi presentano un’impronta idrica differente in base al processo produttivo da cui essi hanno origine. Da ciò ne consegue che a chi acquista è riconosciuta una notevole responsabilità delle proprie scelte, che avranno un impatto diverso in base ai prodotti acquistati.

Al fine di rendere i consumatori maggiormente consapevoli in merito al consumo di acqua, il Water Footprint Network ha sviluppato una piattaforma interattiva dove è possibile verificare l’impronta idrica dei vari alimenti.

Se si pensa che gran parte delle coltivazioni viene impiegata per nutrire animali da allevamento, non stupisce che per produrre 1 kg di carne bovina siano necessari circa 15.000 litri di acqua. È possibile constatare come, solitamente, gli alimenti di origine animale abbiano un’impronta idrica molto superiore a quelli di origine vegetale. Ci sono tuttavia alcuni outsider, come il caffè tostato e il cioccolato, i quali necessitano rispettivamente 18.900 litri ca. e 20.000 litri ca. per la produzione di 1 kg di prodotto.

È necessario considerare che, come riportato dalla Fondazione Barilla Center for Food and Nutrition (BCFN), l’impronta idrica globale ammonta a 7.452 miliardi di metri cubi di acqua dolce all’anno, che corrisponde a 1.243 metri cubi pro capite, una quantità assolutamente non sostenibile nel futuro. Da ciò ne deriva che i consumatori hanno una grande responsabilità nella riduzione dell’impronta idrica globale e che, attraverso scelte alimentari maggiormente consapevoli, è possibile limitare il consumo di acqua, a beneficio della comunità nel suo complesso.

Marianna Casprini