Quello che non vediamo dei prodotti verdi

La traduzione letterale del termine greenwashing è “dare una mano di verde”. Con tale termine si vogliono indicare le pratiche implementate dalle aziende al fine di fornire un’immagine che occulta la loro effettiva insostenibilità. Solitamente ciò si esplicita attraverso campagne marketing fuorvianti che mirano a fare breccia nella sfera emotiva dei consumatori, ed in particolare di quelli più attenti alla sostenibilità, i quali sono convinti di acquistare un prodotto che sia rispettoso dell’ambiente e dei diritti dei lavoratori.

Diverse sono le modalità con cui si può fare greenwashing. Basti pensare all’utilizzo di immagini suggestive o, semplicemente, apponendo le voci “verde” o “amico dell’ambiente” o “impatto zero” sui prodotti. Non si tratta però di un fenomeno recente, bensì di un fenomeno che affonda le sue radici già negli anni ‘80. Di fatti, nel 1986, l’ambientalista Jay Westerveld lo utilizzò in riferimento alla campagna messa in pratica dalle catene alberghiere, che invitavano i loro ospiti a ridurre il consumo di biancheria poiché preoccupati per l’impatto ambientale del lavaggio della stessa, in realtà dietro tale preoccupazione si celavano interessi economici.

All’inizio di questo millennio, per quanto conosciuto il greenwashing, non era ancora molto diffuso; oggi, invece, possiamo vantare una comunità più informata alle tematiche ambientali e, di conseguenza, anche a questa pratica.

Se, quindi, il consumatore medio di inizio millennio era facilmente influenzabile da pubblicità fuorvianti e apparentemente sostenibili, oggi è sempre più alto lo scetticismo dei consumatori dinanzi a pratiche di questo calibro. È facilmente intuibile che questa pratica può ledere anche quelle imprese che rispettano la realtà che li circonda e che cercano di adattare le proprie linee guide al mondo di oggi che risulta essere più bisognoso di una “vera sostenibilità”.

Come si è evoluta, quindi, nel tempo la trattazione normativa relativa al greenwashing?

La prima vera rivoluzione risale al 2014 e la Direttiva 2014/95/UE che ha introdotto la cosiddetta “Rendicontazione non finanziaria” (NFRD), recepita in Italia con il d.lgs 254/2016. Si tratta di una direttiva che ha stabilito dei nuovi standard di reporting per le grandi società quotate.

La rendicontazione non finanziaria rappresenta un primo mezzo per poter informare gli investitori delle attività attuate dalle imprese in questi ambiti di emergente rilevanza. I documenti che devono essere pubblicati dalle imprese non riguardano più solamente gli aspetti di natura finanziaria, ma anche le performance aziendali sotto un profilo nuovo e più ampio: quello della sostenibilità.

In tal senso, il “Global Reporting Initiative” (GRI), si tratta di un ente internazionale senza scopo di lucro nato con l’obiettivo di definire nuovi standard di rendicontazione sostenibile. Le aziende di tutto il mondo sfruttano attualmente gli standard imposti dal GRI (si tratta del cosiddetto “Bilancio sociale”), in quanto vengono descritti:

–          standard di natura universale;

–          standard di natura economica;

–          standard di natura ambientale;

–          standard di natura sociale.

Ai fini di questa trattazione si può dire che gli standard relativi all’ambito ambientale sono fondamentali per capire l’impegno di ogni impresa di grandi dimensioni nell’utilizzo dei materiali, nello sfruttamento di energia, nel rispetto della biodiversità, nella limitazione delle emissioni e nell’utilizzo di scarichi idrici e di rifiuti.

Di uguale importanza per questa tematica risulta essere la “Corporate Sustainability Reporting Directive” (CSRD),una nuova direttiva dell’Unione Europea entrata in vigore il 5 gennaio del 2023 che impone alle imprese situate sul territorio europeo di effettuare un report sull’impatto ambientale e sociale. Il principale obiettivo, quindi, risiede nel miglioramento dell’informativa sulla sostenibilità e la vera rivoluzione sta proprio nell’equiparare, sotto un profilo di importanza, le informazioni di natura finanziaria a quelle di natura ambientale e sociale. La direttiva rappresenta, quindi, il riflesso di una realtà che cambia e che si evolve.

La CSRD si pone anche l’obiettivo di ampliare il novero di aziende coinvolte in questo tipo di rendicontazione, se, infatti, la NFRD coinvolgeva le grandi imprese quotate, la nuova direttiva include anche le piccole e medie imprese passando da 11.700 imprese coinvolte a 49.000, di cui 4000 solo nel territorio italiano.

Oggigiorno, le campagne di greenwashing sono particolarmente diffuse nel settore della moda. Brand quali H&M, Decathlon e Asos sono recentemente finiti nel mirino dell’attenzione pubblica per via delle loro dichiarazioni definite poco chiare e non sufficientemente comprovate.  Particolare attenzione merita Shein nei cui confronti è stato coniato il termine di “Shein- washing”.

Questo marchio, man a mano che ha guadagnato popolarità, ha anche ricevuto critiche per quanto riguarda le sue pratiche di produzione. A seguito di ciò, l’azienda ha invitato influencers di diverse nazionalità a partecipare ad un “viaggio stampa” all’interno delle fabbriche di Canton in Cina con il compito di elogiare la trasparenza dell’impresa. Ma è realmente così?

Sono molteplici le organizzazioni, gli esperti e gli enti che hanno fatto luce sulle fuorvianti dichiarazioni di sostenibilità fatte da Shein, ed in particolare sulle sostanze tossiche presenti nei materiali utilizzati per produrre indumenti e che rimangono all’interno dei vestiti, nuocendo alla salute del consumatore (Green Peace Germania). Ciò che è emerso a seguito delle diverse valutazioni effettuate è che le pratiche di sostenibilità adottate da Shein, non sono conformi a quanto detto pubblicamente dalla stessa.

In questo senso, è interessante l’analisi effettuata dall’ONG Remake attraverso il suo annuale Remake Fashion Accountability Report. Nel Report vengono valutate le azioni adottate da diverse aziende verso gli obiettivi di giustizia sociale e ambientale alla luce di  sei criteri: tracciabilità (8 punti), salari e benessere (23 punti), pratiche commerciali (15 punti), materie prime (20 punti), giustizia ambientale (42 punti) e Governance (42 punti). Per ciascuna categoria, viene assegnato un punteggio fino ad un massimo di 150 punti totali. Tra le diverse aziende analizzate nella valutazione, vi è anche Shein che nel 2022 ha totalizzato complessivamente 8 punti.

Allo stesso modo, il Corporate Climate Action Transparency Index (CATI), indice che valuta l’azione climatica delle imprese lungo la filiera produttiva, ha valutato Shein al 133° posto sulle 155 aziende prese in esame.

Nonostante la vastità dell’argomento del greenwashing e l’attualità della sua portata, ai fini di questa trattazione è risultato importante, nostro avviso: individuare una nozione chiarificatrice, analizzare un caso concreto e mostrare la disciplina normativa più recente in materia. L’obiettivo è quello di rendere quante più persone possibili consapevoli del fatto che non tutte le imprese che manifestano di essere “green” o a “impatto zero” lo sono nell’effettività. La speranza è che non si faccia più leva su questa nascente sensibilità per la tematica ambientale per far profittare i propri interessi imprenditoriali.

Federica Boca, Elena Sofia Boncelli e Ester Russo.