La Legge di Bilancio 2023, in conformità agli obiettivi dell’impianto normativo europeo sulla materia, prevede delle agevolazioni fiscali agli operatori che hanno un comportamento virtuoso dal punto di vista del riciclo. In particolare, riconosce alle imprese un credito d’imposta nella misura del 36% delle spese sostenute per l’acquisto di prodotti contenenti una percentuale di materie plastiche ottenute con il riciclaggio di imballaggi post-consumo (in attesa del relativo Decreto attuativo).
Dalla lettura del documento emerge lo scopo del legislatore nazionale (e di quello comunitario): incentivare il riciclaggio, nello specifico quello della plastica da rifiuto di imballaggio. Tuttavia, è necessario operare dei distinguo tra i diversi metodi di riciclo, esaminare i “pro” e i “contro” di ciascuno e chiedersi se sia opportuno pretendere dal legislatore una maggiore chiarezza sul punto.
La legge di bilancio, così come tutta la normativa europea, non fa distinzione tra quelle che sono le due principali forme di riciclo, “riciclo meccanico” e “riciclo chimico”.
Il riciclo meccanico prevede diversi tipi di lavorazione dei rifiuti plastici (selezione, triturazione, eventuale lavaggio, essiccazione ed estrusione) per trasformarli in “materia prima seconda” (MPS) pronta per essere convertita in un prodotto.
Il riciclo chimico, al contrario, nella sua forma più diffusa, ovvero quella della “Pirolisi”, scompone le molecole attraverso un processo di riscaldamento sottovuoto che porta alla produzione di una miscela di idrocarburi liquidi e gassosi simili al petrolio. Qui sta la prima grande differenza.
Se l’output prodotto con il riciclo meccanico può essere direttamente reimmesso nel sistema produttivo come materia prima seconda, i liquidi ottenuti con quello chimico devono essere sottoposti ad ulteriori lavorazioni per la produzione di un nuovo materiale plastico.
Ne deriva un maggior costo di produzione da ribaltarsi inevitabilmente sul consumatore finale. Inoltre, mentre il riciclo meccanico ha un impatto zero in quanto in nessuna delle sue fasi produce emissioni di Co2, diversamente non si può dire per il riciclo chimico. Non da ultimo, se quello meccanico è un tipo di riciclo rodato da 70 anni ed efficace per il trattamento di ogni tipo di plastica omogenea ed in parte anche eterogenea, il “chimico” può essere utile solo per il recupero del cosiddetto “plasmix” (composizione eterogenea di materiali plastici diversi, ottenuto dalla raccolta urbana o come residuale dei processi di selezione e di riciclo meccanico).
A mio avviso, appare auspicabile un ulteriore intervento normativo a livello nazionale ed europeo che vada a definire il campo d’azione delle principali tipologie di riciclo. Sarebbe opportuno, inoltre, l’istituzione di un ente di accreditamento terzo ed indipendente a livello europeo in grado di fissare un procedimento tecnico-scientifico e determinare la presenza e la percentuale di materiale riciclato all’interno dei prodotti (anche di importazione), come richiesto nel Green Deal.
La mancata definizione da parte dell’UE delle tipologie di riciclo e dell’istituzione dell’ente posto a controllo del procedimento sopra indicato creerebbe una distorsione del mercato e una mancanza di certezza sul rispetto degli obiettivi di riciclo previsti dalle norme europee.
Anna Rizzi