Quando si nomina l’Ilva, emerge il ricordo del fatidico nome dell’isola d’Elba dove gli Etruschi fabbricavano ferro 2500 anni fa.
L’Ilva, ora Acciaierie d’Italia S.p.A., è il più grande complesso industriale in Europa per la produzione di acciaio, ed è costituita da Am InvestCo Italy e Invitalia.
Nel tempo, la storia della grande acciaieria di Taranto si è evoluta, ponendosi al centro di annose polemiche derivanti dall’estrema tossicità delle emissioni dello stabilimento, dimostrata da indagini e perizie mediche disposte nel corso degli anni.
L’azienda è nata presso il quartiere Tamburi nel 1961 nell’ambito del programma di industrializzazione del Mezzogiorno; si tratta di un periodo che, come è noto, è stato al centro di dibattiti inerenti le tematiche ambientali, a seguito dei quali, non a caso, si è compresa l’urgenza di muoversi nella direzione di una maggiore sostenibilità. Successivamente, l’azienda è stata ampliata ed ha cambiato proprietà fino a quando, nel 1989, l’ITALSIDER è stata trasformata in Ilva S.p.A.
Ciò che, tuttavia, nel tempo è rimasto una costante è l’enorme impatto ambientale provocato dall’industria e dovuto, principalmente, alla produzione dell’acciaio e all’impiego delle tre principali materie prime: ferro, carbone e calcare. Di queste, le prime due sono importati a Taranto attraverso grandi navi, mentre la terza, il calcare, è estratto direttamente nelle cave locali.
Minerale e carbone vengono depositati in grandi parchi all’aria aperta dai quali il vento solleva polveri che ricadono sulla vicina città di Taranto. In più, durante il processo produttivo si formano molti sottoprodotti gassosi, liquidi e solidi, contenenti sostante tossiche e cancerogene, oltre che sostanze come diossine e scorie.
È evidente che si tratta di uno dei più gravi disastri sanitari e ambientali della storia italiana ed europea.
Secondo i dati del registro Ines, nella città, negli ultimi anni, è stata immessa in atmosfera il 93% di tutta la diossina prodotta in Italia insieme al 67% del piombo. Tali evidenze hanno portato i periti nominati della Procura di Taranto a svolgere delle indagini ancora più approfondite: essi hanno calcolato che in sette anni le emissioni hanno provocato la morte di 11.550 persone, per lo più per cause cardiovascolari e respiratorie. Si aggiunga che il tasso di incidenza del cancro dell’intera città di Taranto è superiore alla media di tutte le altre città italiane, per via della continua esposizione ad agenti cancerogeni, tra cui ferro, ossidi di ferro, arsenico, piombo, vanadio, nichel e cromo, molibdeno, rame, selenio, vanadio, zinco, platino, ossidi di zolfo e di azoto (in particolare NO2).
E negli anni la situazione è solo peggiorata. Tanto che, la Corte europea per i diritti dell’uomo ha più volte condannato l’Italia per l’inquinamento dell’acciaieria ex Ilva di Taranto, da ultimo, nel maggio 2022 (Caso Ardimento e altri c. Italia – Sezione Prima, sentenza 5 maggio 2022, ricorso n. 4642/17).
Anche in questo caso, come per la famosa Sentenza Cordella (Sezione Prima, 24 gennaio 2019, ricorsi nn. 54414/13 e 54264/15), la Corte è stata chiamata a pronunciarsi sulle emissioni inquinanti derivanti dalle intense attività svolte dall’acciaieria, nonché dai loro effetti sulla salute della popolazione locale. Nella sentenza, i giudici hanno evidenziato ancora una volta come le autorità statali non abbiano adottato le misure necessarie per tutelare la salute e l’ambiente e non li abbiano informati sulle attività inquinanti prodotte dall’azienda e dei rischi connessi per la loro salute.
Già da queste prime considerazioni, emergono due fattori di analisi di rilevante importanza.
Il primo, pone un interrogativo al quale forse è difficile trovare risposta, e fa riferimento alle politiche industriali che negli anni sono state adottate a favore del Mezzogiorno. Nella maggior parte dei casi sono state favorite aziende di lavorazione industriale che accolgono le materie prime provenienti da altri luoghi, costruite in un periodo nel quale esse non rappresentavano più il futuro, ma il passato: uno sguardo più lungimirante avrebbe compreso che, nel giro di pochi anni, non avrebbero apportato efficienza economica alle regioni interessate. Per l’appunto, le politiche economiche di quegli anni stavano andando in un’altra direzione: le lavorazioni industriali avevano cominciato ad essere delocalizzate e spostate nei luoghi di provenienza delle materie prime, evitandone il trasporto.
La seconda, invece, fa riferimento agli effetti che gravano sulla popolazione, la società civile, che patisce indicibili malattie, tenendo conto, inoltre, che l’inquinamento è transfrontaliero e quindi non ne risente solo la circoscritta zona in questione.
Infatti, nel complesso l’inquinamento dell’aria, delle acque, del suolo nella zona di Taranto è insostenibile.
Negli anni numerose sono state le proposte di intervento. Tra queste, si è parlato di bonifica e ambientalizzazione della fabbrica, tramite la copertura dei parchi minerali a carbone, oppure per mezzo del cambiamento del ciclo produttivo, usando metano invece che carbone, o usando come materia prima rottami da rifondere in forni elettrici, come avviene in molte altre acciaierie italiane. È stata proposta anche la chiusura e la trasformazione dell’Ilva in un grande parco dopo averne bonificato i suoli.
Il fatto che l’azienda rimanga aperta sembra fondamentale anche per le altre aziende italiane, poiché l’acciaio prodotto fa sì che queste non si debbano rivolgere alle acciaierie straniere, che lo vendono a prezzi più alti.
Occorre ricordare, inoltre, che l’acciaieria ha 14 mila dipendenti che perderebbero il lavoro qualora questa venisse chiusa. Senza contare le altre migliaia di persone che lavorano nell’indotto, che conta circa una decine di aziende.
Tuttavia, i posti di lavoro non possono configurarsi come una scusante per evitare di prendere una decisione, qualunque essa sia. Non bisogna dimenticare che la salute delle persone e della natura è un bene primario non negoziabile. La comprensione del da farsi è un tragico dilemma che accompagnerà ogni situazione nella quale sorga la necessità di conciliare la produzione di merci utili e necessarie, la salute dei lavoratori e dei cittadini e l’ambiente naturale. Tuttavia, è opportuno tenere presente che, perduto un lavoro, spesso se ne trova un altro, mentre, invece, per la salute e l’integrità del territorio, la maggior parte delle volte, il discorso è un po’ più complicato.
Federica Marino