Il suolo è considerato un organismo vivente, indispensabile per la vita degli esseri umani in quanto fonte di nutrimento. Allo stesso modo, è il secondo serbatoio di carbonio naturale dopo gli oceani.
Eppure, nonostante la sua importanza, secondo la FAO, a livello mondiale il 33% del suolo è in uno stato di degrado entro il 2050 la percentuale potrebbe salire fino al 90%), mentre in Europa la percentuale si aggira tra il 60 e 70%. In Italia invece, un quarto del territorio nazionale è in stato di degrado e il 28% è soggetto a desertificazione secondo dati ISPRA.
Dinanzi a tale situazione adottare soluzioni basate sull’approccio natural-based diventa sempre più inderogabile e tra queste rientra il concetto di agricoltura rigenerativa.
Quando si parla di agricoltura rigenerativa è bene considerarla differente dal concetto di agricoltura sostenibile. Infatti, mentre quest’ultima si pone “solo” l’obiettivo di non degradare l’ambiente, l’agricoltura rigenerativa, sebbene non esista ancora una definizione univoca, consiste in un insieme di pratiche che si basano sul miglioramento dello stato del suolo, degradato dall’uso di fertilizzanti, pesticidi e macchinari pesanti dell’agricoltura intensiva.
Si basa su quattro principi. Il primo è la rigenerazione del suolo attraverso azioni che migliorano la sua fertilità limitando fenomeni di erosione, il secondo consiste nel rigenerare l’ecosistema e la biodiversità quindi diminuire l’utilizzo di sostanza chimiche e un uso efficiente delle risorse naturali, mira alla rigenerazione delle relazioni tra gli esseri viventi ed infine alla promozione dei saperi considerati un bene collettivo.
Ma quali sono i benefici?
Le pratiche di agricoltura rigenerativa favoriscono la salute e la fertilità del terreno, un uso efficiente e una maggiore qualità delle risorse idriche oltre che, in generale, un aumento della biodiversità.
Infine, occorre ricordare che quando un suolo è in ottimo stato, anche la sua funzione di carbon sink (capacità di assrobire CO2 naturalmente) migliora. Secondo il report Farming our way out of the Climate Crisis, i terreni in cui vengono adottate tali pratiche, potrebbero assorbire fino a 13.6 gigatonnellate di CO2.
Allo stesso tempo, diversamente da quanto si potrebbe pensare, nel lungo periodo anche la resa dei raccolti migliora, entro 6-10 anni i profitti possono aumentare fino al 60%. A sostenerlo uno studio di BCG, condotto su aziende agricole tedesche. Secondo un report di Regenerative Farming in Africa, se questa pratica fosse implementata in Africa la resa agricola potrebbe aumentare del 13% entro il 2040 e del 40% negli anni successivi.
Visto i molteplici benefici dell’agricoltura rigenerativa, chiedersi perché non è diffusa su larga scala sorge spontaneo.
Il passaggio a questo nuovo sistema implica sfide di natura tecnica economica e socio/culturale. In primis i costi legati alla transizione da un’attività convenzionale ad una rigenerativa non sono affatto irrilevanti, specie se si considera che negli ultimi 10 anni il reddito di un agricoltore è diminuito (secondo l’USDA Economic Research Service in negli Stati Uniti il calo è stato di circa il 50%).
Un’altra barriera è di natura economica e riguarda la catena di approvvigionamento. Si tende infatti a premiare un’agricoltura industriale caratterizzata da alti rendimenti i cui prodotti si trovano sul mercato a costi competitivi scoraggiando così gli agricoltori da una possibile transizione a ad un’agricoltura rigenerativa.
Si aggiungono, poi, barriere tecniche che ne influenzano la diffusione. L’imprevedibilità della natura e del mercato lasciano poco spazio alla sperimentazione di nuove pratiche, che richiedono tempo, risorse e competenze specifiche. Infine anche l’aspetto culturale gioca un ruolo importante poiché vi è spesso la tendenza a giudicare e mettere in discussione nuove pratiche diverse da quelle a cui si è sempre stati abituati.
Serena Marangoni