L’agguerrita concorrenza globale che caratterizza il mondo del Fast Fashion crea ripercussioni non solo da un punto di vista ambientale ma anche, e soprattutto, sociale. È ormai chiaro come ciò che si nasconde dietro al fenomeno della moda veloce, quindi la corsa al profitto, generi un insostenibile sfruttamento del lavoro.
Se da una parte il settore dell’abbigliamento impiega oltre 75 milioni di persone in tutto il mondo, dall’altra crea una pressione immane sui lavoratori, costretti a vedere limitati i loro inalienabili diritti umani. Ne deriva che, i concetti di etica e di responsabilità sociale, ad oggi fondamentali, non caratterizzano le principali aziende fashion.
I principali esportatori di prodotti tessili sono i paesi asiatici. Grazie, infatti, ai bassi costi della manodopera e ai brevi tempi di produzione, questi stati sono diventati il luogo principale in cui i più grandi marchi globali della moda hanno delocalizzato la loro produzione.
Il documento “Workers’ conditions in the textile and clothing sector: just an Asian affair?” pubblicato dal Parlamento europeo (anno) mostra le condizioni disumane e degradanti a cui i lavoratori sono sottoposti. All’interno di questi stati, inoltre, milioni di persone, per la maggior parte ragazze e donne, lavorano in condizione di schiavitù più di dieci ore al giorno, a volte senza nemmeno un giorno di pausa. In aggiunta, il loro salario si aggira intorno ai 136 euro al mese, nettamente inferiore al salario di sussistenza. .
La rapida crescita del settore ha fatto sì che molti edifici, inizialmente costruiti con scopi residenziali, venissero confiscati e riadattati a fabbriche, senza alcun permesso specifico. Ciò ha permesso ai proprietari di creare degli ambienti lavorativi privi di dispositivi di protezione appropriati, oltre che sovraffollati, aumentando così il rischio di incendi e il numero delle potenziali vittime. Inoltre, il costante contatto diretto con agenti chimici ha causato innumerevoli danni alla salute nel breve e lungo termine con patologie respiratorie e costante bruciore agli occhi. Oltretutto, l’aggiunta di piani e macchinari oltre la capacità di sicurezza degli edifici ha messo a rischio la loro stabilità, portando molti di essi al crollo, come successo con la tragedia di Rana Plaza nel 2013.
In Bangladesh, il 24 aprile 2013 si è verificato uno dei più grandi disastri mai avvenuti fino ad ora, il crollo strutturale dell’edificio di Rana Plaza nell’area metropolitana di Dacca. Tale cedimento è stato proprio imputato all’eccessivo peso dei numerosi macchinari presenti all’interno delle cinque fabbriche di abbigliamento ospitate dell’edificio. Come riportato dall’International Labour Organization (ILO) con la pubblicazione “The Rana Plaza Accident and its aftermath” il crollo ha provocato la morte di oltre 1100 morti e 2500 feriti. Quello di Rana Plaza non è stato un caso isolato, tanto che cinque mesi prima circa 100 lavoratori hanno perso la vita in un incendio che ha colpito la fabbrica Tazreen Fashions, sempre in Banladesh.
Il verificarsi di questi due avvenimenti ha portato alla luce ulteriori aspetti inerenti alle pessime condizioni di lavoro a cui gli operai sono sottoposti. Basti pensare alla mancanza di qualsiasi forma di risarcimento economico o di sostegno per i familiari che perdono i propri cari, nonostante il codice del lavoro preveda una protezione finanziaria.
Al fine di risolvere tale situazione, è stato adottato un accordo che prevede un approccio unico al risarcimento, coerente con gli standard dell’ILO e con la Convenzione sulle prestazioni per infortuni sul lavoro. Inoltre, per garantire maggiore sicurezza, si aggiunge il Bangladesh Accord, accordo vincolante tra i principali marchi di moda e i sindacati con l’obiettivo di creare un’industria tessile e dell’abbigliamento sicura e sana, caratterizzata da un ambiente lavorativo privo di rischi. Nel settembre del 2021 è entrato in vigore un nuovo accordo “International accord for health and safety in the textile and garment industry” della durata di 26 mesi che mantiene i punti cardine dell’accordo del 2013, tra i quali: la libertà di associazione per i lavoratori, l’attuazione di controlli imparziali nelle fabbriche, la formazione di comitati di sicurezza, l’obbligo per le imprese di pagare ai fornitori cifre congrue al mantenimento di standard di sicurezza sui luoghi di lavoro e di interrompere il rapporto di lavoro con le aziende che si rifiutino di garantire tali standard.
Tuttavia, quanto adottato finora, se pur necessario, appare non sufficiente. Risulta fondamentale creare consapevolezza intorno al mondo della moda, incentivare la popolazione verso un consumo responsabile e garantire dignità a tutta la catena di produzione. Una strategia opportuna, ma alquanto improbabile, potrebbe essere quella di adottare un trattato internazionale che vincoli le imprese al rispetto dei diritti umani, a prescindere da dove operino o abbiano la sede.
Martina Moretti.