Il pianeta sta affrontando la più grave emergenza alimentare del 21° secolo.
Secondo il Report della FAO, The State Security and Nutrition of The World 2022, nel 2021 il problema alimentare ha interessato 46 milioni di persone in più rispetto al 2020 per un totale di 150 milioni di persone in più dal 2019. Le aree più colpite sono state quelle del Africa subsahariana, Asia meridionale, America centrale e Sudamerica.
Inoltre, dal Report emerge come nel corso del 2021, quasi 2,3 miliardi di persone nel mondo sono state moderatamente o gravemente insicure dal punto di vista alimentare. Ricordiamo che, secondo la definizione elaborata dal World Food Summit del 1996, c’è sicurezza alimentare quando “tutte le persone, in ogni momento, hanno accesso fisico, sociale ed economico ad alimenti sufficienti, sicuri e nutrienti che garantiscano le loro necessità e preferenze alimentari per condurre una vita attiva e sana”.
Tra le cause alla base dell’aumento dell’insicurezza alimentare nel corso del 2021 troviamo i conflitti, gli eventi meteorologici estremi e gli shock economici legati alle ripercussioni della pandemia da COVID-19. In particolare, il cambiamento climatico sta rendendo più difficile coltivare cibo.
Basti pensare ai sempre più frequenti fenomeni di siccità, inondazioni, ondate di calore che portano alla distruzione dei raccolti e, molto spesso, degli stessi terreni agricoli.
Questi eventi climatici estremi influenzano la sicurezza alimentare a livello globale, regionale e locale, attraverso una riduzione della disponibilità di cibo e rendendone l’accesso e l’utilizzo più difficoltoso.
La preoccupante situazione è stata confermata anche dall’Organizzazione meteorologica mondiale (WMO) nel report Stato del clima globale nel 2022. Si legge, infatti, come l’impatto degli eventi meteorologici estremi sull’agricoltura e sull’alimentazione stia peggiorando in tutti i continenti. Inoltre, la desertificazione e i continui disastri naturali causano ogni anno migliaia di morti oltre che privazione dei mezzi di sostentamento, crisi alimentari, miseria e migrazioni.
Il bisogno di nutrire una popolazione in crescita, che si prevede raggiungerà i 9,6 miliardi di persone nel 2050, e di far fronte all’attuale problema della crisi alimentare rende necessario adattarsi al cambiamento climatico.
Con il termine “adattamento” si intende da un lato sostenere le popolazioni più povere e più colpite dai cambiamenti climatici, affinché siano in grado di far fronte ai disastri naturali che non possono essere evitati; dall’altro cambiare il modo in cui il cibo viene prodotto, affinché il pianeta rimanga sano e in grado di produrre tutto il cibo necessario.
Infatti, proprio per questo alla COP 27, tenutasi Sharm el Sheikh dal 6 al 18 novembre, il World Food Programme (WFP) è intervenuto presentando alcune proposte per evitare o/e ridurre al minimo i danni nei mezzi di sussistenza e nei sistemi alimentari particolarmente vulnerabili provocati dai cambiamenti climatici.
Congiuntamente ai progetti di adattamento, le organizzazioni internazionali chiedono una trasformazione dei sistemi alimentari globali in modo da renderli più verdi, più equi e resilienti.
I principi che dovrebbero ispirare questo cambiamento sono: il miglioramento della sostenibilità dei metodi produttivi, privilegiando una produzione su piccola scala e a livello locale, in quanto il sistema industriale risulta insostenibile a lungo termine, a causa dei costi insostenibili per le risorse naturali; l’efficientamento energetico, tramite l’uso di energia rinnovabile per la produzione agroalimentare e lo sfruttamento degli scarti alimentari per la produzione di biogas; la tutela della biodiversità e una dieta maggiormente sostenibile, poiché in molti paesi sviluppati il consumo di proteine animali, favorito dai bassi prezzi garantiti dagli allevamenti industriali, è eccessivo ed altamente impattante.
Da quanto detto, emerge un bisogno urgente di pensare a nuove forme di agricoltura, caratterizzate da metodi sostenibili, lontane da quelle industriali, e allo stesso tempo affiora la necessità di sostenere in modo costante e perpetuo i paesi più poveri e vulnerabili, poco responsabili del riscaldamento globale ma, che più di tutti, ne subiscono le conseguenze.
Camilla Di Bari