Secondo le stime dell’ONU, la popolazione mondiale aumenterà di quasi 2 miliardi nei prossimi 30 anni, sfiorando i 10 miliardi di persone. Questa crescita demografica porterà automaticamente ad un aumento dei livelli di consumo e ad un impatto sul nostro pianeta, sia in termini economici che ambientali. Per questo, con il passare del tempo si è cercato di trovare soluzioni che possano rappresentare forme di nutrizione maggiormente sostenibili.
Tra le innovazioni più dirompenti, ma anche più discusse, vi è quella della carne coltivata in vitro. Di che cosa si tratta esattamente? Gli alimenti basati su carne coltivata vengono ottenuti tramite la clonazione di cellule staminali estratte dagli animali. Le cellule vengono successivamente poste all’interno di un bioreattore che, ricreando l’ambiente del corpo animale, ne consente la moltiplicazione.
Il primo hamburger di carne coltivata fu presentato dieci anni fa a Londra, in diretta televisiva, dallo scienziato olandese Mark Post. Da allora l’industria è cresciuta tanto che, secondo McKinsey, il mercato della carne coltivata varrà 25 miliardi di dollari entro il 2030.
In Italia, il tema ha destato perplessità e timori e ha attirato l’attenzione dei legislatori.
Già durante la primavera del 2023 la politica aveva mostrato la sua avversione nei confronti della carne coltivata con il disegno di legge n. 651. Il provvedimento vietava la produzione e la commercializzazione di carne coltivata e del “meat sounding”, ovvero l’uso di denominazioni che rimandano alla carne per prodotti trasformati contenenti proteine vegetali.
A novembre dello stesso anno il disegno di legge è stato approvato con la legge 2023/172. La legge prevede il divieto 1) di produrre e commercializzare “alimenti e mangimi, costituiti, isolati o prodotti a partire da culture cellulari o di tessuti derivanti da animali vertebrati”, oltre a quello 2) di denominare prodotti contenenti esclusivamente proteine vegetali con appellativi riferiti alla carne, come “burger” o “cotoletta”. La misura stabilisce per i trasgressori, oltre al sequestro della merce, una sanzione amministrativa con una multa che può variare da 10 mila a 60 mila euro o il 10% del fatturato totale annuo, per un valore massimo di 150 mila euro.
Alla base di questo provvedimento ci sono diverse motivazioni: in primis, la sicurezza alimentare e la salute pubblica. In effetti, sono ancora necessari studi ed esperimenti per verificare se ci siano o meno rischi per la salute umana. In questo senso, un ruolo importante, soprattutto di verifica, sarà svolto dall’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare (EFSA).
Un’ altra motivazione riguarda la sostenibilità. Anche in questo caso, non è ancora chiaro che tipo di impatto potrà avere sull’ambiente la produzione di carne coltivata rispetto a quella animale.
Oltre a queste motivazioni, ci sono anche ragioni legate alla tradizione del nostro paese e all’impegno nella tutela degli imprenditori agricoli, come affermato dal ministro dell’Agricoltura Lollobrigida.
Occorre peraltro notare che questa legge ha effetti anche per i cosiddetti prodotti “plant-based”, ovvero tutti quei prodotti a base di proteine vegetali (verdure, cereali e legumi), che ricordano i cibi contenenti proteine animali, nonostante non abbiano nulla a che vedere con loro, sia per caratteristiche sia per composizione.
Questi prodotti fanno parte della nostra cultura culinaria da sempre, basti pensare, ad esempio, alle polpette di ceci o agli “hamburger” di verdure. Rappresentano sostituti alle proteine animali che permettono di avere una dieta più sana e variegata, per quanto ci sia ancora molto scetticismo a causa della lunga lista di ingredienti che caratterizzano questi prodotti, considerati quindi come ultra-processati.
In Italia, tra il 2020 e il 2022 il valore delle vendite di prodotti “plant-based” è aumentato del 40%, ad indicare proprio come gli italiani siano invogliati e favorevoli al consumo di questo genere di alimenti. È ragionevole immaginare che la legge entrata in vigore metterà a rischio un settore in fase di crescita, limitando i business che già operano in questo campo.
Secondo il Good Food Institute (GFI), organizzazione no profit che promuove alternative ai prodotti animali, l’approvazione della legge italiana ha diverse conseguenze:
- la privazione di uno strumento che potrebbe esser utile a contrastare il cambiamento climatico;
- il potenziale contrasto con le norme adottate a livello europeo, qualora, ad esempio, l’EFSA autorizzasse la commercializzazione della carne coltivata nel mercato UE. Inoltre, ciò porrebbe l’Italia in una situazione di svantaggio competitivo rispetto agli altri paesi che, adottando una legislazione più permissiva, beneficiano dello sviluppo e della crescita legata alla carne coltivata.
Finora, a livello europeo, solo la Francia ha seguito l’Italia e ha vietato la produzione, la lavorazione e la commercializzazione di carne coltivata sul proprio territorio.
Appare quindi evidente come questa innovazione alimentare stia facendo molto discutere, con pareri assolutamente discordanti sul merito dell’iniziativa.
In conclusione, dati i vincoli posti dalla regolamentazione in atto, una possibile soluzione per continuare ad investire in un’innovazione di questo genere è focalizzarsi su progetti di ricerca, proprio come fa la start up trentina Bruno Cell. Dal 2019, infatti, questa realtà italiana si occupa solamente di ricerca in ambito di carne coltivata per far sì che possa diventare una risorsa economicamente sostenibile. Oggi la start up sta lavorando anche sulla possibile commercializzazione di linee cellulari all’estero per poter comunque dare un futuro alla carne coltivata in Italia in termini di opportunità di ricerca e sviluppo e di potenziali flussi di investimento futuri.
Naturalmente, l’altro aspetto sul quale è essenziale fare chiarezza è la sicurezza alimentare, con l’obiettivo cioè di condurre continue e adeguate sperimentazioni per garantire che questi prodotti rispondano agli standard più elevati di sicurezza.
La carne coltivata è ancora agli inizi della sua adozione su larga scala. E ciò è vero anche nei Paesi in cui essa è già disponibile da anni, proprio a motivo delle numerose incognite che la caratterizzano. Peraltro, il divieto al suo sviluppo rischia di rendere impossibile anche la sperimentazione. Il che può impedire al nostro Paese addirittura la possibilità di verificare i possibili benefici futuri che questa tecnologia potrebbe offrire.
Chiara Arianna Bellemo