Il 7 ottobre 2023 l’attacco terroristico di Hamas nei confronti di Israele ha riacceso il conflitto arabo-israeliano, in parte mai sopito. Se le perdite umanitarie sono elevate, non da meno sono quelle ambientali.
Secondo uno studio pubblicato recentemente (B. Neimark P. Bigger, F. Otu-Larbi e R. Larbi intitolato, “A Multitemporal Snapshot of Greenhouse Gas Emissions from the Israel-Gaza Conflict”), nei primi 60 giorni di guerra nella Striscia di Gaza le emissioni di CO2 sono state superiori a quelle prodotte annualmente da 20 stati, presi singolarmente.
L’analisi condotta dai ricercatori ha mostrato una panoramica delle emissioni di carbonio causate dal conflitto sulla base di tre orizzonti temporali.
Inizialmente, la ricerca ha calcolato le emissioni dirette prodotte nel corso dei primi 60 giorni di combattimento e, in misura limitata, quelle indirette. Quest’ultime sono legate, tra l’altro, alla fabbricazione di bombe e missili e al loro impiego, ai raid delle forze israeliane e all’utilizzo dei carri armati e degli altri veicoli nel corso delle operazioni militari. Contestualmente, sono stati quantificati gli impatti climatici provocati dal lancio dei missili Qassam usati da Hamas contro Israele.
Nella seconda fase della ricerca, invece, sono state conteggiate le emissioni legate a tutte le infrastrutture di sicurezza costruite in cemento nell’arco di 16 anni, dal 2007 in poi, in Israele e nella Striscia di Gaza. Tra queste, i tunnel realizzati da Hamas e il muro di separazione ‘Iron’ o ‘Smart Wall’ costruito da Israele.
L’ultima dimensione temporale analizzata è, invece, proiettata verso il futuro e riguarda la stima, in termini di emissioni di carbonio, della ricostruzione post conflitto a Gaza. Le stime hanno tenuto conto sia delle distruzioni causate dai bombardamenti israeliani, ma, anche, della situazione precedente all’interno della Strica già precaria.
In particolare, dallo studio emerge come, durante i primi due mesi del conflitto, siano state emesse circa 281.315 tonnellate di CO2. Le emissioni sono state dovute al lancio dei circa 9.500 razzi Qasam (713 tonnellate di CO2) e dei circa 100.000 proiettili d’artiglieria (12.000-13.600 tonnellate di CO2) nonché delle 10.000 bombe israeliani (7.000 tonnellate di CO2). Infine, ad aggravare la situazione, l’uso del carburante per i jet militari che ha causato emissioni pari a circa 120.840 tonnellate di CO2. Queste cifre evidenziano l’impatto significativo delle operazioni militari sul cambiamento climatico. Se aggiungiamo all’analisi anche i voli cargo effettuati dagli Stati Uniti abbiamo altre 133.000 tonnellate di CO2.
In termini strutturali (edifici residenziali, strade, impianti di trattamento dell’acqua, reti fognarie e pozzi d’acqua), invece, lo studio stima che la ricostruzione di circa 100.000 edifici distrutti dal conflitto all’interno della Striscia di Gaza comporterà un costo economico (miliardi di dollari) ma, anche, un impatto climatico che, si stima, possa arrivare a circa 30 milioni di tonnellate di CO2 (pari alle emissioni annuali della Nuova Zelanda).
Tutto ciò, chiaramente, rappresenta solamente una stima. Anche perché, ad oggi, non sembrano esserci i presupposti per un cessate il fuoco. Le operazioni militari, infatti, principalmente israeliane, continuano incessantemente.
È evidente, sulla base di quanto poc’anzi affermato, che il conflitto tra Israele e Gaza stia avendo un impatto significativo sia dal punto di vista umanitario che ambientale. Lo studio citato ha sottolineato come le azioni militari abbiano provocato una quantità considerevole di emissioni di carbonio, in maniera sia diretta che indiretta.
In termini generali, queste considerazioni ci spingono ad una riflessione più ampia riguardo l’importanza di considerare, tra l’altro, gli impatti ambientali che i conflitti armati possono provocare. Le parti in conflitto, Hamas e Stato israeliano, ma lo stesso discorso può farsi anche per il conflitto in Ucraina, dovrebbero tenere conto, tra le varie norme internazionali, anche di quelle in materia ambientale.
Ci sembra, quindi, di estrema attualità ricordare quanto affermato dal Principio 24 della Dichiarazione di Rio (1992) “Gli Stati rispetteranno il diritto internazionale relativo alla protezione dell’ambiente in tempi di conflitto armato e coopereranno al suo progressivo sviluppo secondo necessità”.
Alessandra Dominijanni