Sono ormai note a tutti le grandi isole di plastica presenti nei nostri oceani. Negli anni tonnellate e tonnellate di rifiuti si sono accumulate nei mari e hanno formato i cosiddetti “continenti galleggianti”.
Molti potrebbero pensare che la loro comparsa risalga agli ultimi 10/20 anni, in realtà molte delle isole sono state scoperte prima degli anni 2000. Basti pensare che la North Atlantic Garbage Patch fu scoperta nel 1972 e che la Indian Ocean Garbage Patch, pur scoperta nel 2010, era stata già ipotizzata nel 1988.
La più nota e grande isola di plastica venne scoperta per la prima volta da Charles Moore, oceanografo americano che nel 1997, durante un viaggio di ritorno in barca, si imbatté per la prima volta nella Great Pacific Garbage Patch, chiamata anche Pacific Trash Vortex. L’accumulo di rifiuti era così grande che Moore impiegò ben 7 giorni per attraversarlo completamente. Situato tra il Giappone e le isole Hawaii, è ormai diventato uno dei più significativi simboli della crisi ambientale.
Uno studio pubblicato su Nature nel 2018 ritiene che la superficie del suddetto agglomerato sia di circa 1,6 milioni di km2, ma alcune stime ipotizzano un’estensione anche oltre i 10 milioni di km2. Potremmo immaginarla, a seconda delle stime più ottimistiche o più pessimistiche, rispettivamente come una superficie pari a tre volte quella della Francia o uguale a quella dell’intero continente Europeo.
Sono cinque le isole di plastica che si sono andate a creare al largo, per un totale di ben 5,25 trilioni di pezzi di plastica. Negli ultimi anni anche il Mar Mediterraneo si è unito a tale triste realtà.
Tra la Corsica e l’Isola d’Elba si sta formando un nuovo continente galleggiante composto da 1000/3000 tonnellate di rifiuti e che si stima sia molto più denso di quello del Pacifico. I materiali provengono principalmente dai grandi fiumi che sfociano nei nostri mari, in questo caso, dall’Arno, dal Tevere e dal Sarno.
L’Unep identifica fra le principali cause della loro formazione:
- le discariche illegali o mal gestite
- lo scarso trattamento delle acque reflue
- i rifiuti abbandonati al suolo e poi trasportati ai corsi d’acqua dagli agenti atmosferici
- l’attività di pesca
- le cattive abitudini delle persone nelle spiagge
Nonostante le grandi dimensioni di queste nuove isole, il 90% di esse è costituito da minuscoli frammenti di pochi millimetri estremamente pericolosi per la fauna marina e per la salute dell’uomo.
Finora non è stata trovata una soluzione definitiva al fenomeno descritto. Tuttavia, alcune organizzazioni, come The Ocean Clean Up, stanno realizzando dei progetti con lo scopo di porre fine a queste tristi realtà. A 16 anni Boyan Slat, durante un’immersione in Grecia, vedendo più buste di plastica in mare che pesci, decise di iniziare a studiare il fenomeno e a ricercare un metodo per fermare l’inquinamento marino. L’ultimo progetto realizzato da Slat e il suo Team è quello del System 002 conosciuto anche con il nome di Jenny: un impianto galleggiante mangia-rifiuti che, attraverso l’utilizzo di “braccia” di oltre 800 metri e due navi da traino, ha raccolto oltre 28.659 chilogrammi di plastica.
Eliminare completamente i continenti di rifiuti non sarà un’impresa facile, tuttavia, la Ocean Clean Up si è posta l’obiettivo di ridurre la presenza della plastica nei mari di almeno il 90% entro il 2040.
Sara Filugelli