Scopriamo la “bioplastica”

Quante volte abbiamo letto sull’etichetta “bioplastica”? Siamo sicuri di sapere quello che c’è dietro questa etimologia?

Questo articolo ha l’obiettivo di chiarire il concetto di bioplastica.

Partiamo con la definizione. Secondo l’European Bioplastics il termine “bioplastica” indica un tipo di polimero che può avere la caratteristica di essere biodegradabile, derivare da biomassa o entrambe. Tuttavia, andiamo ad analizzare nel dettaglio questa definizione, per comprendere meglio cosa significa “bioplastica”.

I polimeri che hanno origine 100% fossile e che non sono biodegradabili rappresentano circa il 99% (2020-2021, fonte European Bioplastics) delle plastiche convenzionali. Parliamo di materiali come il PE, PDPE, HDPE, PET, PVC e PP. Il restante circa 1% (2020-2021, fonte European Bioplastics) è rappresentato dalle bioplastiche, che possono derivare da biomassa (bio-based) o da fossili e possono essere biodegradabili o non biodegradabili. Le bioplastiche biodegradabili derivanti da fossili sono il PCL e PBAT mentre quelle prodotte da biomassa sono il PLA, PBS e PHA. Inoltre, dalla biomassa, possiamo ottenere bioplastiche non biodegradabili, come il BIO-PET e PA.  Il termine “BIO” non sta ad indicare la biodegradabilità ma fa semplicemente riferimento alla materia prima usata, ossia materiale organico.

Ma, cosa significa “biodegradabile”?

Spesso utilizziamo i termini biodegradabile e compostabile come se fossero sinonimi, ma in realtà si differenziano per il tempo di degradazione e per i residui che lasciano dopo la decomposizione. La biodegradazione è un processo naturale a cui sono sottoposte tutte le sostanze biologiche. Anche le plastiche, o altri materiali, possono subire questo processo grazie alla loro struttura chimica, che è simile a quella di sostanze naturali che permettono ai microrganismi di attaccarli e trasformarli in elementi più semplici come H2O, CO2 (se aerobico), CH4 (se anaerobico) e biomassa. Ovviamente, tutto questo, dipende da diversi fattori come le condizioni ambientali (aerobico e anaerobico ma se vogliamo essere più precisi parliamo di suolo, acqua, impianti industriali di compostaggio, compostaggio domestico o discarica), lo spessore e il tipo di materiale, che influenzano anche il tempo che occorre per la decomposizione.

Il termine “compostabile” fa riferimento a quei materiali organici che, tramite il processo di compostaggio, diventano compost, ovvero, un tipo di fertilizzante che può essere impiegato in agricoltura.

Alcune bioplastiche biodegradabili, per essere considerate compostabili, devono essere conformi alla norma UNI EN 13432 e superare i seguenti test:

–           il test di degradazione (almeno il 90% deve essere convertito in CO2 entro circa 6 mesi)

–          il test di disintegrazione (dopo circa 3 mesi a contatto con materiali organici il 90% del materiale ha una dimensione inferiore a 2 mm)

–          il test di ecotossicità (il trattamento biologico non ha compromesso la qualità del compost) che è anche una garanzia per il consumatore finale dato che molto spesso, questo tipo di imballaggi, sono a stretto contatto con gli alimenti.

Inoltre, le etichette di imballaggi biodegradabili e compostabili devono riportare la scritta “conforme alla norma UNI EN 13432” e un logo stampato sul prodotto come “ok compost”, “compostabile CIC” o “Vincotte”. Solo in questo caso possono essere smaltiti nella frazione umida altrimenti vanno nella plastica, nonostante la scritta “bioplastica biodegradabile”.

Dunque, per concludere, quando parliamo di bioplastica non è detto che sia necessariamente biodegradabile: non tutte le bioplastiche si biodegradano in tempi brevi in natura e non è detto che non rilasciano sostanze nocive nell’ambiente. Quindi, può non essere composta esclusivamente da materie prime rinnovabili e può essere interamente costituita da materie fossili.

Maria Izabela Chili