Negli ultimi anni, la negligenza delle grandi compagnie petrolifere nell’affrontare i danni ambientali causati dalle proprie attività e la loro continua condotta omissiva hanno spinto organizzazioni ambientaliste, ONG e cittadini a intraprendere azioni legali note come Contenziosi Climatici.
Queste istanze, legali e non, mirano a imporre ad aziende e governi il rispetto degli standards di riduzione delle emissioni di gas serra e il contenimento del riscaldamento globale.
In termini generali, le attività che contribuiscono al cambiamento climatico determinando una violazione dei diritti umani fondamentali protetti, a livello interno, dalla Costituzione italiana e, a livello internazionale, da trattati vincolanti, basti pensare all’Accordo di Parigi.
Un caso emblematico è “La Giusta Causa”, la prima causa climatica italiana contro un’azienda privata.
Il caso è stato avviato da Greenpeace Onlus, ReCommon e da privati cittadini contro Eni, Cassa Depositi e Prestiti S.p.A. e Ministero dell’Economia e delle Finanze per “i danni alla salute, all’incolumità e alle proprietà, nonché per aver messo, e aver continuato a mettere, in pericolo gli stessi beni per effetto delle conseguenze del cambiamento climatico”. In particolare, i ricorrenti chiedono al Tribunale di Roma di obbligare Eni a rivedere la propria strategia industriale al fine di ridurre le proprie emissioni del 45% entro il 2030 rispetto ai livelli del 2020, in linea con l’Accordo di Parigi.
Il 25 settembre 2023, Greenpeace e ReCommon hanno pubblicato il Report “Eni Sapeva”, che documenta la consapevolezza del colosso italiano sulle conseguenze climatiche delle proprie attività sin dagli anni Settanta e dei danni potenzialmente catastrofici che l’immissione di CO2 nell’atmosfera stesse causando al clima del Pianeta.
L’obiettivo di queste accuse? Attribuire responsabilità passate e future per i danni arrecati nei confronti degli italiani per effetto del cambiamento climatico.
Responsabilità che emergono con tutta evidenza dai risultati della cosiddetta attribution science, la scienza che permette di ricondurre un quantitativo determinato di emissioni non conformi ai valori fissati a livello internazionale, a un preciso soggetto.
Ad oggi Eni, la più influente azienda di Stato, risulta essere non solo il principale inquinatore a livello nazionale, ma anche uno dei 30 più grandi emettitori di CO2 nel mondo. Nonostante le dichiarazioni pubbliche di impegno per la neutralità climatica entro il 2050, i piani delineati continuano a puntare significativamente su petrolio e gas, risultando non conformi agli scenari di emissioni Net Zero dell’IPCC e dell’Agenzia Internazionale dell’Energia.
Greenpeace e ReCommon nel loro Report denunciano: “Eni continua a fare greenwashing e nasconde l’aumento delle sue emissioni con soluzioni fasulle come la cattura e lo stoccaggio di CO2, che fino ad ora non ha mai funzionato, oppure schemi di off setting forestale che, seppur attivi da decenni, non hanno protetto le foreste che continuano a degradarsi”.
In particolare, le critiche dei ricorrenti riguardano:
- la mancanza di un piano strategico che preveda un sufficiente taglio delle emissioni,
- l’assenza di una valutazione di impatto climatico delle attività d’impresa,
- la carenza di un piano di prevenzione e mitigazione dei rischi,
- l’assenza di trasparenza.
Le ONG sostengono, dunque, che Eni non dimostri alcuna reale volontà di cambiamento.
Dal canto suo, l’azienda ha difeso la propria posizione dichiarando che “questa narrazione è falsa e sconta un evidente approccio strumentale volto alla demonizzazione della grande impresa. Un’accusa che si fonda su un pregiudizio – smentito nei fatti – secondo cui l’utilizzo di fonti fossili sarebbe funzionale solo agli interessi privati ed economici di quella che gli attori definiscono la “grande lobby delle compagnie petrolifere”.
La prima udienza del processo si è svolta il 16 febbraio 2024 e si è concretizzata nello scambio di brevi note senza la comparizione delle parti in Tribunale. Le parti si sono avvalse di consulenti scelti: la compagnia petrolifera ha selezionato Carlo Stagnaro e Stefano Consonni mentre l’accusa ha presentato Nicola Armaroli, Rita Fioravanzo, Richard Heede e Marco Grasso.
Stupisce che Eni non abbia incluso un climatologo tra i suoi esperti, affidandosi ad un economista e a un docente di sistemi per l’energia e l’ambiente, noti l’uno per aver assunto posizioni antiscientifiche sulla crisi climatica, l’altro per il profondo legame con il mondo delle società energetiche.
Al contrario, Greenpeace e ReCommon hanno scelto nel gruppo dei propri consulenti: un esperto di energia e direttore di ricerca del CNR, una psicoterapeuta specializzata in ansia climatica e, soprattutto, due esperti di clima.
Eni come si è difesa dalle accuse? Nelle sue memorie difensive ha difeso la propria posizione sostenendo di aver adeguato l’attività produttiva alle esigenze della domanda. Tuttavia, secondo i ricorrenti questo espediente narrativo ha l’intento di spostare la responsabilità sul consumatore finale del prodotto: “la collettività che acquista e utilizza i prodotti energetici per gli usi più diversi”.
Il 17 luglio scorso, il Tribunale ordinario di Roma ha deciso di rinviare la decisione sulla procedibilità del processo civile alla Corte di Cassazione. Va detto, infatti, che Eni e le altre parti chiamate in causa hanno eccepito il “difetto di giurisdizione del giudice ordinario adito” ritenendo impossibile che una causa climatica potesse essere portata dinanzi ad un giudice ordinario.
La decisione del Tribunale Civile di Roma, in linea con quanto sostenuto dai ricorrenti, ha negato che il ricorso fosse manifestatamente inammissibile (per tempestività e giurisdizione) e infondato nelle ragioni della contestazione. Di fatto, la Corte di Cassazione sarà chiamata per la prima volta a pronunciarsi sulla possibilità di avviare una causa climatica anche in Italia, al pari di quanto accaduto nelle altre giurisdizioni europee.
Potrebbe sembrare ambizioso che una causa civile intentata da due ONG relativamente piccole possa far cambiare il piano industriale di una multinazionale come ENI. Tuttavia, la via legale per combattere i cambiamenti climatici sta guadagnando sempre più forza, basti pensare ai successi ottenuti in Germania (Caso Neubauer c. Germania) e in Olanda (Milieudefensie e altri c. Shell), almeno in prima grado.
In termini generali, come ha mostrato il Global Climate Litigation Report: 2023 Status Review, adottato dall’UNEP, al momento sono 2.180 le cause climatiche in corso nel mondo.
Per concludere, questi contenziosi, indipendentemente dall’esito, sono la dimostrazione che la giustizia climatica può diventare un ottimo alleato nella lotta contro la crisi climatica e ambientale.
La speranza è quella di riuscire, a porre delle solide basi, che siano in grado di innescare una vera e propria inversione di rotta in un settore che, per troppo tempo, ha privilegiato gli interessi economici a scapito della salvaguardia del pianeta. E’ il momento di fare spazio ad un futuro in cui la sostenibilità non sia più una opzione, ma una priorità.
Melania d’Aloisio